Catalogo Atmosfere sospese

prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole IL CIGNO GG EDIZIONI ROMA prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole Giusy LaurioLa GIUSY LAURIOLA

IL CIGNO GG EDIZIONI ROMA prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole Giusy LaurioLa

IL CIGNO GG EDIZIONI Piazza San Salvatore in Lauro, 15 00186 Roma Tel +39/066865493 www.ilcigno.org sito nel Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, un immobile dell’Ente morale Pio Sodalizio dei Piceni ISBN 978 88 7831 478 8 Tutti i diritti riservati © 2022 IL CIGNO GG EDIZIONI, ROMA in copertina elaborazione grafica dalle opere Il vento ci porterà oltre e Nuvole a cura di Federica Di Stefano organizzazione e catalogo ufficio stampa Francesca Lombardi traduzioni Alessio Severo GALLERIA UMBERTO MASTROIANNI MUSEI DI SAN SALVATORE IN LAURO, ROMA 3 – 31 marzo 2022 IL CIGNO GG EDIZIONI ROMA Patrocinatore e Advisor Legale Sponsor Indice INTRODUZIONE 7 INTRODUCTION 23 Federica Di Stefano GIUSY LAURIOLA. Intervista di Manuela De Leonardis 9 GIUSY LAURIOLA. Interview by Manuela De Leonardis 24 NUOVE FORME DAI CONFINI INDEFINITI, PROPRIO COME LE NUVOLE 19 NEW SHAPES WITH UNDEFINED BORDERS, JUST LIKE CLOUDS 32 Manuela De Leonardis I SENTIERI METAFISICI DI LAURIOLA 20 LAURIOLA’S METAPHYSICAL PATHS 33 Carlo Ercoli Opere/Artworks 35 BIOGRAFIA 75 BIOGRAPHY 76 Indice opere/Artworks index 81 RINGRAZIAMENTI /THANKS 87 Vincenzo Di Miele Private Banker prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole Giusy LaurioLa

7 Conosco Giusy Lauriola dal 2008, quando partecipò con la personale Extra–urbane al ciclo di mostre Nel segno delle donne, alla Galleria 196 che allora dirigevo. Negli anni l’ho vista crescere ed evolversi con una rapidità rara, aggiungendo e sottraendo elementi e tecniche nei suoi lavori in maniera incessante, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e di nuovi traguardi. L’ho vista tenace e testarda percorrere il sentiero, non sempre facile, per arrivare alle nuvole, possiamo dire parafrasando il titolo di questa sua bellissima mostra. Ed è qui che il nostro sguardo si perde nei colori resi ancora più brillanti dalla resina che fluidamente e anarchicamente riveste le superfici. Ed è qui che la nostra mente va indietro con la memoria a ricordare fatti e sensazioni che aveva dimenticato o, al contrario, va avanti immaginando che ciò che sta guardando possa essere lo scenario del suo futuro. Perché l’opera di Giusy si muove in uno spazio atemporale e indefinito che pone l’uomo, che ha voglia di guardarsi dentro, davanti al proprio passato, al proprio presente e perché no, al proprio possibile futuro, svolgendo così perfettamente uno dei compiti precipui dell’arte contemporanea. Federica Di Stefano

9 Vorrei iniziare questa conversazione dalla foto in bianco e nero scattata da Tano D’Amico, che ti ritrae in versione hippie: un’adolescente con la chitarra e i capelli lunghi sciolti sulle spalle. Cosa c’era in nuce e come questa ragazzina un po’ ribelle è diventata un’artista? Sicuramente c’era la ricerca di qualcosa di non strutturato. Nel mio essere hippie, a 17 anni, c’era una libertà interiore che probabilmente è l’unica cosa che sento collegata al mio personale mondo dell’arte che ho creato in questo lungo periodo. Allora andavo sempre in giro con la chitarra, non solo quella volta. Cantare mi aiutava, così come suonare. Cercavo qualcosa fuori dagli schemi, vivendo in un mondo tutto mio. Ho sempre avuto una vivida immaginazione che mi permetteva di accettare la realtà rendendola sempre più affascinante. Andando indietro nel tempo, ricordo che da piccola mi mettevo sotto il tavolo del soggiorno, a volte lo coprivo per essere isolata, e lì sotto tagliavo la carta, la incollavo, disegnavo. La vita, poi, mi ha portata a fare altre scelte per motivi legati alla mia famiglia d’origine, ma sicuramente già allora c’era questo bisogno di andare oltre. In particolare, qual è il contesto in cui è stata scattata quella fotografia? È stata scattata nel 1977. Ero andata a manifestare contro la realizzazione della centrale nucleare a Montalto di Castro. In quell’occasione avevo partecipato con il Living Theatre a una performance teatrale intitolata La Peste. Dovevamo rappresentare gli effetti nocivi dell’energia nucleare sull’uomo paragonandoli alla peste. Sarà stato, forse, anche questo il motivo per cui Tano D’Amico si accorse di me! Poi per anni hai accantonato il lato artistico, pur percependo nella creatività un’esigenza esistenziale… L’arte, per me, rappresenta la possibilità di immergermi nei miei viaggi interiori, in quel silenzio magico fatto di assenza di spazio e tempo, e da quello che ne scaturisce che poi comunico al mondo esterno. I miei genitori non hanno mai accettato che potessi iscrivermi al liceo artistico, né all’Accademia di Belle Arti, anche se mio padre sosteneva che sin da bambina avevo una dote particolare: anche lasciata sola in una stanza vuota sapevo creare qualcosa. Nonostante ciò, voleva che studiassi Biochimica alla Berkeley University della California per inventare “l’elisir di lunga vita”. Una sostanza che allungasse la vita, la sua! Sono stata ingenua perché, forse, avrei dovuto accettare quella proposta e, una volta lì, magari mi sarei potuta dedicare all’arte. Ma non sono fatta GIUSY LAURIOLA intervista di Manuela De Leonardis

11 10 così. In realtà, negli Stati Uniti ci sono andata non appena ho conseguito la maturità, nell’estate 1978, ma senza alcun sostegno dei genitori. Nella mia innocenza credevo che avrei potuto frequentare un college d’arte dove poter dipingere e danzare, altra mia passione, senza considerare che ci volessero finanze elevate che non avevo. All’epoca cercavo un modo per esprimere me stessa, ma era difficilissimo. Alla fine, per esclusione e per non rimanere lì senza studiare, ho deciso di tornate a Roma e mi sono iscritta alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università La Sapienza. Leggere, del resto, mi è sempre piaciuto molto. Anche i romanzi mi permettevano di viaggiare con la mente, non solo il disegno e la pittura che, comunque, avevo continuato a praticare per conto mio, anche dopo la laurea conseguita con il massimo dei voti. Quando, subito dopo, iniziai a lavorare nel settore della comunicazione, da una parte ero molto assorbita dal lavoro, dall’altra avere uno stipendio mi permetteva di studiare arte con maestri privati e frequentare anche i corsi pomeridiani alla scuola delle Arti e dei Mestieri di San Giacomo a Roma. Ero affascinata dagli odori della pittura! Il profumo di trementina, quello dei solventi… Finalmente potevo iniziare a dedicarmi veramente alla pittura. Del viaggio negli Stati Uniti racconti qualcosa nel libretto-catalogo che accompagna la mostra Cambialamore, realizzata nel 2004 al Salon Privé Arti Visive di Roma… Avevo identificato nella California un luogo di libertà dove tutto era possibile, ma arrivando lì ho scoperto che le cose erano molto diverse. Forse sarei dovuta andare a New York, non a Santa Cruz dove era tutto “let’s have party”. Non era quello che stavo cercando veramente, anche se mi sono molto divertita! Sì, di quest’esperienza ho parlato nel libretto per Cambialamore, la mia prima mostra importante organizzata da Sergio Rispoli. Realizzai un’installazione che era una striscia di 30 metri, alta 80 centimetri, con foto estrapolate dalle riviste e dal web, manipolate e riassemblate in maniera sarcastica e provocatoria. Erano in prevalenza immagini di dolore contaminate da altre che, invece, rispecchiavano una società che non soffre, presentate all’indifferenza di uno sguardo che ha imparato a ignorare il senso della tragedia. Poco prima c’era stato l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e poi la guerra in Iraq. Mi ricollegai anche al mio vissuto personale, facendo un excursus che partiva proprio dalla contraddizione tra l’immaginazione che avevo nutrito per la California, ascoltando la musica di Bob Dylan o di Crosby, Stills, Nash & Young e leggendo On the road di Jack Kerouac, e la realtà che non era riuscita a colmare quell’inquietudine interiore che mi portavo dentro. Artisticamente la narrazione fotografica lineare di questo progetto, che era la descrizione di ciò che vedevo, è parallela a quella scritta. Si tratta di una versione alternativa a un catalogo “ufficiale” in cui spiegavo cosa mi avesse portato in quella direzione. Ho parlato anche della mia esperienza lavorativa nel settore della comunicazione quando, chiusa in una stanza ascoltavo la musica e, intanto, sui monitor (ne avevo tre o quattro davanti a me) controllavo contemporaneamente i lanci delle agenzie stampa. Devo riconoscere che questo lavoro mi ha anche permesso di viaggiare molto, imparare a organizzare le diverse fasi di un progetto e non solo: in quel contesto ho avuto l’occasione di incontrare mio marito Stefano, l’amore della mia vita, che mi ha permesso di dedicarmi all’arte e con cui ho avuto due figli favolosi Marco e Sofia. Un motivo per cui sarò sempre grata alla vita. Ho anche avuto il piacere di avere come capo Luigi Torre, padre di Mattia Torre, che conobbi quando era giovanissimo e a cui sono rimasta legata da una profonda amicizia fino alla sua scomparsa prematura. Dal punto di vista pittorico qual è stato il tuo approccio nello studio della tecnica? All’inizio mi sono voluta dedicare alla tecnica pittorica fiamminga e anche a quella dei Macchiaioli. Dicevano che ero brava a riprodurre il reale, e anche un quadro antico, per me era come fare un’operazione di matematica. Certo, provavo un grande piacere nel dipingere marine, paesaggi… Sentivo che quello stato placava la mia eterna irrequietezza, ma non era ciò che cercavo. Quando ho finalmente deciso di lasciare il lavoro nella comunicazione e mi sono dedicata esclusivamente all’arte, andare ogni giorno in studio non ha cambiato le mie abitudini. Scandivo la giornata come per una qualsiasi altra professione, ma ero finalmente felice di dipingere a tempo pieno. Allo stesso tempo questa libertà mi permetteva anche, avendo una famiglia, di essere disponibile per i figli quando era necessario. Proprio la famiglia mi ha aiutata ad avere quel contatto con la realtà Cambialamore, Champion, 2004

13 12 che stando sempre chiusa in studio avrei potuto perdere. Nel tempo come si è evoluta la tua tecnica? Dopo essermi inizialmente concentrata sulla pittura ho preso le distanze dall’approccio accademico, sperimentando altre tecniche come l’utilizzo del mezzo fotografico, sempre però rielaborato al computer e contaminato con la pittura e la video arte, che accompagnava ogni progetto. Dopo una serie di progetti, tra cui D.I.O. Determina l’illuminazione e l’Oscurità (2007), in cui mettevo a confronto la presenza/assenza della simbologia positiva e negativa, Aspirazioni urbane (2013), Qui e Ora (2014) e Butterfly Effect (2014), ho provato nuovamente la necessità di «sporcarmi le mani». Usavo i colori, combinandoli successivamente con le resine e altri materiali, per ricreare quello che ero riuscita visualmente a elaborare con la fotografia. Ma sentivo di dover andare oltre. Nel frattempo frequentai a Roma un bellissimo corso professionale d’illustrazione alla Scuola di Fumetto e Illustrazione Pencil Art. Lì ho imparato che il tratto è qualcosa di unico. Una delle esercitazioni era ritrarre dal vero una modella che era al centro della sala e la cui posizione veniva cambiata ogni tre minuti. In quel poco tempo dovevamo buttar giù l’immagine di ciò che vedevamo. Copiare la realtà è una cosa che possono fare tutti, naturalmente bisogna saperlo fare, ma il tratto è qualcosa di unico e cambia da persona a persona. Sì, dovevo lasciare libertà alla mano. Un’ulteriore evoluzione c’è stata durante il lockdown, nella primavera 2020, quando ho iniziato a disegnare anche con la mano sinistra che non avevo mai usato prima. Questa libertà è stata determinante nel dare al tratto una vena ancora più creativa. Oggi disegno con entrambe le mani. Soffermiamoci sulla mostra personale Extra– urbane (2008) alla Galleria 196 di Roma, la tua prima collaborazione con la gallerista Federica Di Stefano. Un progetto nato dalle suggestioni del viaggio in Burkina Faso che hai fatto nel 2007, che è stata anche l’occasione che ci ha fatto conoscere… Tutto è partito da Bettie Petith, una straordinaria donna americana che vive a Roma dagli anni ’80 e che ha creato Fitil, una serissima associazione onlus attiva in diversi villaggi del Burkina Faso. Decisi di partire per il Burkina perché avevo solo un’idea dell’Africa, ero stata in un villaggio in Kenya, e volevo un confronto più diretto con la vita reale. Con Bettie, che è il nostro trait–d’union, ho avuto la possibilità di conoscere il villaggio di Sakouli, dormendoci e vivendolo. È stata la scoperta di una parte di Africa occidentale! Ricordo quel rumore incessante che arrivava dall’esterno, la prima notte a Ouagadougou, nella sede operativa di Fitil: mi chiesi se fossero beccacce, o forse gabbiani, invece poi ho scoperto che erano gechi in amore. La natura era straordinariamente presente e intensa. Ricordo anche la vitalità e l’energia che si respirava nella capitale. Durante il viaggio in Burkina Faso, certamente, la macchina fotografica mi ha aiutata a fermare l’attimo anche in previsione dell’elaborazione di quest’esperienza attraverso l’arte. La mostra Extra –urbane nasce proprio dal desiderio di raccontare, attraverso il mio sguardo, la bellezza e l’eleganza, aspetti che esulano dagli stereotipi occidentali dell’Africa. In quei giorni si teneva la XX edizione del Fespaco, il Festival panafricano del cinema, con una serie di eventi culturali tra i quali a Ouaga 2000, nella serata del 2 marzo, la sfilata di moda con i meravigliosi abiti di stilisti senegalesi, ivoriani, ghanesi e burkinabé. Di questi abiti, oltre al taglio e alla foggia, mi colpì l’utilizzo dei colori dei tessuti, gli accostamenti contrastanti. Ho la sensazione che noi, in occidente, abbiamo paura dei colori, invece in Africa c’è una totale libertà. Da queste suggestioni sono nati sia il video che le elaborazioni digitali contaminate dalle tecniche pittoriche a cui ho aggiunto la resina. Il Burkina Faso è ritornato anche nelle opere Women InColors, che ho esposto nel 2019 alla Domus Art Gallery di Atene. In questa nuova serie mi sono ispirata alle modelle africane arrivando a una nuova rappresentazione delle memorie di quel viaggio, stavolta utilizzando sulla tela solo resina e colori acrilici. Cosa ti ha portata a scegliere la resina che è diventata la materia a cui hai affidato la tua cifra espressiva? Prima c’era solo la pittura, poi la fotografia su plexiglass rielaborata e contaminata con la pittura. La tecnica si è evoluta con l’aggiunta della tela dipinta con la stessa immagine riportata sotto e sopra il plexiglass; quindi la pittura e la resina passata sopra e, infine, la resina e altri materiali lavorati insieme. Del plexiglass mi attirava la luce riflessa e, in un certo senso, la resina ha le sue stesse caratteristiche tecniche. Infatti, il plexiglass è un polimetilmetacrilato, quindi una resina dura, mentre la resina industriale è un materiale polimerico sintetico. Per Extraurbane avevo deciso di usare la resina sulla fotografia rielaborata. Mi piaceva l’idea della stratificazione della resina sull’elaborazione fotografica perché richiamava, comunque, il

15 14 concetto della sospensione della memoria. In quella serie sovrapponevo immagini del viaggio in Africa con altre di Roma, la mia città. Successivamente sono passata a sperimentarne l’uso sulle tele dipinte con strati di colori ad olio, come nelle opere della mostra bipersonale Sei gradi. Un istante (2009), sempre alla Galleria 196, rendendomi, però, subito conto che controllare questa materia era difficilissimo. Con queste opere, nel 2010, sono stata invitata dall’Istituto Italiano di Cultura di Damasco per una personale al Centro Culturale Arabo Aburemmaneh e a partecipare anche al Simposio d’arte al Museo Archeologico Ma'rat AlNoaman di Idlib. Nel tempo ho continuato a fare sperimentazioni, cercando la resina che fosse più adatta alle mie esigenze: l’intuizione è arrivata quando mi sono resa conto che avrei potuto «parlare» con l’elemento che utilizzavo, assecondandolo. Lasciar reagire la resina sull’olio, piuttosto che imporle un utilizzo forzato, poteva diventare addirittura un punto di forza. Liberare il tratto, oltre che la resina, è stato un ulteriore passaggio a cui sono arrivata anche grazie a un periodo in cui ho meditato assiduamente. La pratica meditativa mi ha aiutata a rimanere centrata e a far uscire una parte di me attraverso il tratto stesso. Non è un caso che nel 2018, la prima mostra dopo questo periodo di sperimentazione, l’abbia intitolata Iosepha che poi era il modo in cui, al liceo, mi chiamava la mia professoressa di latino. Giuseppina in latino è Iosepha. Una mostra in cui presentavo solo figure femminili. Non che, in precedenza, non avessi lavorato sul tema del femminile, ma questo particolare progetto era il racconto di me in un modo molto delicato e anche trasfigurato. La donna che rappresentavo era quasi irraggiungibile. Una donna che si mostra nascondendosi. Ho ripreso questo tema anche in un progetto successivo, dove i soggetti sono una donna con una bambina: due figure che si parlano. Si tratta ancora di un lavoro molto introspettivo, ma a quel punto sentivo di essermi liberata completamente. Non avevo più bisogno di raccontare, potevo finalmente «entrare» nelle opere che sognavo di realizzare. Questo percorso introspettivo, come dicevi, si riflette effettivamente nell’uso molto più libero della resina… Nel progetto Iosepha usavo tele bianche con la resina che lasciavo interagire con il colore. La realizzazione era difficilissima, perché lavorando d’istinto non sempre riuscivo a non sporcare le tele che dovevano rimanere immacolate. Quanto alla trasparenza era importante anche per il suo ambivalente significato simbolico. Rapportata agli individui, mostra l’esistenza di persone «trasparenti» in senso positivo ma anche negativo. Persone che possono essere così trasparenti quasi da non esistere, oppure da arrivare ovunque. È anche la storia di mia madre, e di tante altre donne, che nonostante avesse una grande forza interiore non ha avuto quella capacità di urlare, di farsi sentire e di realizzarsi nella vita, oltre che come madre e moglie. Ricordo un bellissimo film, Memorie di una geisha, in cui la protagonista afferma «l’acqua si scava la strada attraverso la pietra, e quando è intrappolata si crea un nuovo varco». La resina è liquida come l’acqua e all’origine è trasparente. C’è un legame, ovviamente, tra l’acqua, la resina e la figura femminile. Queste donne, che io chiamo “liquide”, rappresentano sia fragilità e dolcezza che sensualità e forza. A proposito di forza nel libro di Guido Levi Una storia piena di paure, di ansie e di avvenimenti quasi gialli 1942-1946 (2021), a cui abbiamo collaborato, hai affrontato la storia della fuga in Svizzera di un bambino ebreo e della sua famiglia per salvarsi dalle persecuzioni nazifasciste… Nonostante la drammaticità di quel terribile periodo, le pagine del diario che ho scelto per le mie tavole hanno sempre uno sguardo poetico. Guido Levi era un bambino di 4 anni che, a Genova, viveva una vita serena. Ma un giorno del 1942 si svegliò nel suo letto caldo e accogliente con i boati delle bombe. Era scoppiata la guerra! Il diario inizia proprio con le bombe degli alleati sganciate sul porto di Genova e prosegue con la fuga, insieme alla famiglia ebrea, per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste, di città in città fino a trovare la salvezza in Svizzera. Ho realizzato 12 tavole in cui ho cercato di interpretare la storia con gli occhi di un bambino che riesce, comunque, a cogliere gli aspetti lirici. Anche nelle storie terribili c’è un filo di ottimismo, uno sguardo poetico che voglio mantenere per cercare di trovare sempre una soluzione positiva anche nel dolore. Nelle tue opere più recenti le figure umane perdono consistenza fisica, diventando sempre più eteree. Come si collocano all’interno dei grandi paesaggi che Guido Levi, Una storia piena di paure, di ansie e di avvenimenti quasi gialli, 1942–1945, libro illustrato da Giusy Lauriola

17 16 concepisci sempre come proiezione dei tuoi paesaggi interiori? Il paesaggio diventa l’atmosfera principale del sentimento, ma è anche la mia rappresentazione del mondo. In particolare “del pianeta da cui provengo”, di quel luogo in cui mi sento a mio agio. Come in un sogno che feci anni fa, è anche il luogo/non luogo che immagino sia quello da dove proveniamo e dove andremo, dove non esiste solo un piano o una dimensione ma infinite altre. La presenza della figura umana entra sempre in relazione con il contesto, ma non in maniera egocentrica o aggressiva. Per me è parte del tutto, nel rispetto e nell’armonia del mondo che la circonda e di cui è parte. Anche la nuvola, elemento che compare per la prima volta in questo nuovo progetto, è particolarmente significativa. La nuvola, come l’acqua, non ha consistenza, ma riempie i cieli. La presenza oggettiva delle nuvole è mediata dalla citazione letteraria degli haiku, a cui mi sono avvicinata in occasione di un altro progetto recente, Amabie. La magica profezia dello Yokai. Sono rimasta affascinata dalla capacità di sintesi di questi componimenti letterari che arrivano dal Giappone: poche parole con una straordinaria intensità poetica. In particolare, ho trovato “illuminante” l’haiku di un autore sconosciuto (erroneamente attribuito a Issa o Basho), che dà il titolo anche a questa mostra: Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole. La vita può essere difficile, ma vale la pena attraversarla per raggiungere la “leggerezza” rappresentata dalle nuvole. In queste parole non solo ritrovo una perfetta metafora della vita, ma anche di quello che è il mio stesso percorso artistico. Parlando dell’uso “istintivo” della materia pittorica, mi viene spontaneo fare un collegamento con i dipinti di Samagra (Anna Maria Colucci, 1938 –2015), che entrambe abbiamo avuto il dono di conoscere… Ci tengo a precisare che il suo metodo ricorda più il dripping, mentre io ho una metodologia diversa. Tu l’hai conosciuta quando aveva scelto il nome Sanyasi di Ma Prem Samagra e faceva una pittura zen in cui il colore sulla tela nasceva come forma meditativa, invece i miei ricordi si riferiscono a quando, adolescente, frequentavo la sua casa ai Parioli a Roma, con la mia amica Daniela che era la baby sitter di suo figlio Gianpaolo. La ricordo come una donna unica, bellissima: all’epoca era fidanzata con Alex, il principe afghano figlio dell’ex sovrano in esilio in Italia. Ricordo anche la vivacità culturale che si respirava in quella casa frequentata da tanti artisti e critici. Luigi Ontani, che era un caro amico di Anna Maria, ci regalò il diario indiano che io e la mia amica abbiamo portato con noi durante il nostro primo viaggio negli Stati Uniti. Lo conservo ancora. Ci scrivevo appunti, disegnavo, dipingevo. Di Anna Maria Colucci ho in mente la grande apertura, disponibilità e la sua grande passione per l’Oriente. Quando c’era un problema tutto si risolveva con «chiediamolo ai Ching!». Quando poi, qualche anno dopo, è diventata Samagra mi parlava del colore come di un’esperienza istintiva e diretta, diversamente dai suoi lavori fotografici della fine degli anni Sessanta e Settanta, che erano molto più concettuali e rispecchiavano la sua adesione al femminismo, avendo partecipato alla nascita della Cooperativa del Beato Angelico, tra i primi collettivi femministi in Italia. Ci sono artisti che consideri mentori? La prima in assoluto è mia madre che, quando in giovane età era in collegio, aveva realizzato tre dipinti che aveva portato a casa. Erano dei semplici olii su legno. Peccato che non abbia continuato a dipingere, ma certamente deve aver messo in me il primo seme. Rispetto all’uso del colore, un mentore probabilmente è stato Mario Schifano con quel movimento insito nelle cromie, quella frenesia che rispecchia la sua personalità e in cui, in parte, mi ritrovo. Con Schifano c’è stata anche una breve conoscenza, perché sua moglie Monica De Bei e il figlio Marco hanno abitato per un periodo nel mio stesso palazzo a Roma e lui passava a trovarli. Alla nascita di Marco, il mio primogenito, mi fece anche dono di una sua opera. Ad ogni modo, a seconda del mio relazionarmi ad un dato progetto, le ispirazioni e i mentori possono essere diversi. Per la serie Iosepha mi sono ispirata a Klimt e al suo uso dell’oro in pittura, mentre il tratto nervoso nasce dalla mia ammirazione per Schiele. Tra i contemporanei un artista di cui ho grande stima, anche se non credo di essermi mai ispirata direttamente alle sue opere, a parte, forse, all’inizio per l’uso del plexiglass, è Emilio Leofreddi. Infine, devo ringraziare Baldo Diodato per avermi aiutata a conoscere e approcciarmi alla resina. Ma il vero mentore, a cui devo tanto, è dentro me: quella voce insistente ed esigente che mi ha continuato a dire di non mollare mai, spingendomi a cercare sempre nuove soluzioni. Roma, 29 novembre 2021

19 Nell’orizzonte creativo di Giusy Lauriola le nuvole indirizzano lo sguardo dell’osservatore verso ulteriori contaminazioni. Pittura e installazione, in Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole, seguono un iter introspettivo che nasce dall’evocazione di un haiku. L’essenza stessa del lavoro di Lauriola è condensata in questa frase metaforica che allude alle difficoltà di un percorso non battuto, e alla meta finale rappresentata dal distacco. La pittura in sé, per l’artista, è sempre un momento meditativo che la pone al cospetto della parte più profonda dell’Io. Questa, almeno, è la premessa. Una pittura, la sua, che prende le distanze dall’espressione mimetica del reale, traducendo, piuttosto, quella tensione costante che anima la ricerca. La sperimentazione che Lauriola porta avanti da vent’anni, passaggio dopo passaggio, tende alla semplificazione attraverso la riduzione degli elementi descrittivi, focalizzandosi nei lavori più recenti su figurine leggiadre avvolte in abiti d’altri tempi. Ma anche l’uso di una palette che prevede un numero piuttosto limitato di colori, gli azzurri, i rosa–arancio con l’introduzione dei gialli, dei verdi, dei rossi, è parte di una visione che punta a nuove estrinsecazioni di paesaggi interiori. Ciascun colore, come insegna Max Lüscher con la sua teoria psicologica in relazione alle emozioni, è consacrato a un sentimento, uno slancio emotivo, un impulso. Tuttavia, ciò che rende il risultato unico e irripetibile è la presenza di un materiale apparentemente estraneo al contesto, la resina sintetica o epossidica, che riesce a instaurare un dialogo stimolante con i colori acrilici, gli smalti, il bitume e, naturalmente, la tela e la mano dell’artista che traduce visivamente il suo pensiero. L’immediatezza del gesto s’imbriglia nella densità delle resine, polimeri termoindurenti che prendono parte al processo artistico nel ruolo di testimoni attivi, custodi essi stessi della memoria dell’azione. Quasi un ossimoro: lento e veloce, è così che si anima il processo con la stratificazione e il passaggio della resina dallo stato liquido a quello solido. Al contempo spettatrice e protagonista della magia della creazione, Giusy Lauriola, la cui padronanza della tecnica nasce da una pratica costante, quotidiana, si adegua a dei tempi che sono rallentati e immediati nel trasformare l’istante in eternità. Nel suo lavoro è presente anche l’imprevedibilità della mutabilità della forma, accidentale, improvvisa, che diventa essa stessa presenza attiva sul supporto bidimensionale. Nascono, così, nuove forme dai confini indefiniti, proprio come le nuvole. Manuela De Leonardis NUOVE FORME DAI CONFINI INDEFINITI, PROPRIO COME LE NUVOLE

21 20 Visitare una mostra personale può regalarci il dono di compiere un itinerario nella sensibilità dell’artista che vi espone; sensazioni ed emozioni attraverso il segno e il colore vengono distillate sulle tele aprendoci lo sguardo verso altri mondi e prospettive. Così l’artista si propone come un moderno sciamano, il quale inducendo lo spettatore alla riflessione, si pone come traitd’union con le dimensioni ultraterrene. Ecco tutto ciò è possibile riscontrare nelle opere di Giusy Lauriola che compongono il corpus della mostra Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole. I lavori qui esposti si presentano, a chi li osserva, come paesaggi metafisici grondanti materia pittorica, spiritualità e sentimento incentrati su una partizione cromatica che ricordano certamente degli orizzonti; su questi emergono flashback improvvisi di figure umane come fossero apparizioni provenienti dalle lontane lande dell’inconscio e vivificate da un segno memore dell’automatismo psichico nell’accezione del pensiero libero dal controllo della ragione. Il processo che ha portato a tale risultato, in equilibrio mirabile tra astrazione e figurazione, ha un’origine lontana che affonda le proprie radici nel reale e nelle sue dinamiche sociali. Una realtà, spesso studiata e sviscerata dall’artista nelle sue varie declinazioni, e affrontata pittoricamente negli anni riducendo sempre di più il riferimento oggettuale e figurativo. Questo è stato un procedimento inversamente proporzionale, inizialmente latente e inconscio, per poi manifestarsi lentamente sempre più chiaro. Infatti, l’autodeterminazione e le conquiste raggiunte si sono tradotte per Lauriola in una sottrazione piuttosto che in un’aggiunta di elementi e colore sulla tela. Cioè la sicurezza raggiunta le ha permesso di oltrepassare le forme immanenti, avvertite superflue e vuote, per dedicarsi alla riflessione sull’ontologia dell’essere e della natura che è il vero scopo della sua ricerca. In tutto ciò appare esplicativo il titolo della mostra che allude a un percorso sicuramente non privo di difficoltà e ostacoli per il raggiungimento di un fine superiore. Così come chiarificatore è il titolo della serie Atmosfere sospese di cui fanno parte le tele in mostra. Osservando tali lavori, la sensazione che percepiamo è quella di una sospensione temporale dove il fluire del tempo risulta cristallizzato. In queste visioni l’attenzione di chi guarda è portata all’interno del quadro dalle piccole figure poste in basso; successivamente, le posizioni e le dimensioni variabili di quest’ultime tramite un gioco di diagonali e simmetrie non ortodosse conducono lo sguardo verso la I SENTIERI METAFISICI DI LAURIOLA zona di confine nella quale vengono a contatto le propaggini cromatiche con le quali l’artista divide il supporto. Ed è qui che si rivela la luce del pensiero puro alleggerito dalle catene razionali. Tramite la pittura dunque Lauriola pone in essere quell’attività noetica dell’anima per mezzo della quale perviene a una conoscenza intuitiva e non filtrata. Tecnicamente ciò è tradotto in un informale gestuale steso sul fondo della tela nel quale è fondamentale l’uso della resina. Tale materiale, infatti, fa emergere velature, effetti e reazioni ipotizzate e sperate ma senza la certezza del risultato finale. La resina, infatti, sfuggendo al controllo completo dell’artista ha la capacità unica di essere imprevedibile come la vita. Le sagome delineate sulla stesura cromatica, imperniate su di un tratto sicuro e non descrittivo, affiorano direttamente dalle nebulose del subcosciente e sono connesse con la sensazione di pace e tranquillità derivante dal conseguimento dell’empatia con l’essenza della realtà naturale. La gestualità e la postura delle figure grazie a un segno incisivo riescono a comunicare sensazioni con un linguaggio non verbale fortemente espressivo. Dunque Lauriola, nel momento in cui il pensiero privo degli ancoraggi riflessivi raggiunge la dimensione contemplativa associa a questo stato immagini che provenienti dal proprio io completano e avvalorano il soprasensibile percepito. Le linee quindi tracciano sulla tela profili che, sorti dall’attività intuitiva, si affermano e si strutturano poi con dettagli e caratteri idealizzati slegati dal proprio contesto storico. Lo spettatore davanti alle opere di Lauriola è soggetto a una stimolazione sinestetica in cui un ruolo di primo piano lo svolge la palette di colori usata. Le cromie dai toni tenui che talvolta acquistano più forza avvolgono la sensibilità del fruitore della visione il quale sente di sottofondo suoni non udibili dall’orecchio. La conseguenza è un immediato senso di armonia e calma nel quale i soggetti presenti sulle tele con il loro linguaggio analogico stimolano un processo cognitivo interno alla dimensione rappresentata. Carlo Ercoli Cambialamore, Città dell’Altra Economia MACRO Testaccio, Roma 2019

23 I have known Giusy Lauriola since 2008, when she participated with her solo exhibition Extra – urbane in the series of exhibitions Nel segno delle donne (In the sign of women) at Gallery 196, which I managed at the time. Over the years, I have seen her grow and evolve with a rare rapidity, adding and subtracting elements and techniques in her works incessantly, always in search of new stimuli and new goals. I have seen her determined and stubborn along the not always easy path to the clouds, we could say by paraphrasing the title of her beautiful exhibition. And it is here that our gaze loses itself in the colours made even brighter by the resin that fluidly and anarchically covers the surfaces. And it is here that our mind goes back with the memory to recall facts and sensations that it had forgotten or, on the contrary, it goes forward imagining that what it is looking at could be the scenario of its future. Because Giusy's work moves in an atemporal and indefinite space that places man, who wants to look inside himself, in front of his past, his present and, why not, his possible future, thus perfectly fulfilling one of the main tasks of contemporary art. Federica Di Stefano

25 24 I’d like to start this conversation from a black and white photo taken by Tano D'Amico, which portrays you as a hippie: a teenager with a guitar and long, loose hair on her shoulders. What was in a nutshell and how did this little rebellious girl become an artist? There was certainly a search for something unstructured. In my being a hippie, at 17 years old, there was an inner freedom that is probably the only thing I feel connected to my personal art world that I created during this long period. I was always walking around with my guitar then, not just that one time. Singing helped me, as did playing. I was looking for something out of the box, living in a world of my own. I always had a vivid imagination that allowed me to accept reality and made it more and more fascinating. Going back in time, I remember that as a child I used to stand under the living room table, sometimes I would cover it to be isolated, and there I would cut paper, glue it, draw. And then life led me to make other choices for reasons linked to my family of origin, but surely even then there was this need to go beyond. What is the context in which that photograph was taken? It was taken in 1977. I went to demonstrate against the construction of the nuclear power plant in Montalto di Castro. On that occasion, I had taken part with the Living Theatre in a theatrical performance called La Peste. We were supposed to represent the harmful effects of nuclear energy on mankind by comparing it to the plague. Perhaps this was also the reason why Tano D'Amico noticed me! Then, for years, you set aside your artistic side, although you perceived creativity as an existential need... In my opinion, art represents the possibility of immersing myself in my inner journeys, in that magical silence made up of absence of space and time, and then I communicate to the outside world what arise from those journeys. My parents never accepted that I could enrol in art school or in the Accademia di Belle Arti, even though my father claimed that I had a special talent since I was a child: even if I was left alone in an empty room, I could create something. Nevertheless, he wanted me to study biochemistry at the Berkeley University in California to invent the “elixir of life”. A substance that would extend life, his life! I was naive because maybe I should have accepted that proposal and, once there, I could have dedicated myself to art. But I am not like that. In fact, I went to the United States as soon as I graduated from high school, in the summer of 1978, but without any support from my parents. In my innocence, I thought I could go GIUSY LAURIOLA interview by Manuela De Leonardis to an art college where I could paint and dance, another passion of mine, ignoring the fact that it required a lot of money, which I did not have. At the time, I was looking for a way to express myself, but it was very difficult. In the end, by exclusion and not to remain there without studying, I decided to return to Rome and I enrolled in the Faculty of Languages and modern foreign Literatures at La Sapienza University. I have always loved reading. Even novels allowed me to travel with the mind, not only drawing and painting, which I had continued to do on my own, even after graduating with honours. When, soon after, I started working in the field of communication, on the one hand I was very busy with work, on the other hand having a salary allowed me to study art with private teachers and attend afternoon courses at the school of Arts and Crafts of San Giacomo in Rome. I was fascinated by the smells of painting! The scent of turpentine, the scent of solvents... I could finally start to really dedicate myself to painting. You tell us something about your trip to the United States in the booklet–catalogue accompanying the exhibition Cambialamore, held in 2004 at the Salon Privé Arti Visive in Rome... I had identified California as a place of freedom where everything was possible, but when I got there, I discovered that things were very different. Maybe I should have gone to New York, not Santa Cruz where it was all “let’s have party”. It wasn't what I was really looking for, although I had a lot of fun! Yes, I talked about this experience in the booklet for Cambialamore, my first major exhibition organised by Sergio Rispoli. I made an installation that was a 30 metre strip, 80 centimetres high, with photos taken from magazines and the web, manipulated and reassembled in a sarcastic and provocative way. They were mainly images of pain contaminated by others that, instead, reflected a society that does not suffer, presented to the indifference of a gaze that has learned to ignore the sense of tragedy. Shortly before, there had been the attack on the twin towers on 11 September 2001 and then the war in Iraq. I also reconnected with my personal experience, making an excursus that started from the contradiction between the imagination I had fed for California, listening to the music of Bob Dylan or Crosby, Stills, Nash & Young and reading Jack Kerouac’s On the Road, and the reality that had failed to fill my inner restlessness. Artistically, the linear photographic narrative of this project, which was a description of what I was seeing, is parallel to the written one. It is an alternative

27 26 version to an “official” catalogue in which I explained what had led me in that direction. I also talked about my experience of working in the field of communication, when I was stuck in a room listening to music and, at the same time, on the monitors, I had three or four in front of me, checking the launches of the press agencies. I must admit that this job also allowed me to travel a lot, to learn how to organise the different phases of a project and more: in that context, I had the opportunity to meet my husband Stefano, the love of my life, who allowed me to dedicate myself to art and with whom I had two fabulous children, Marco and Sofia. A reason for which I will always be grateful to life. I also had the pleasure of having as my boss Luigi Torre, father of Mattia Torre, whom I met when he was very young and to whom I remained linked by a deep friendship until his premature death. From a painting point of view, what was your approach to the study of technique? In the beginning, I wanted to dedicate myself to Flemish painting technique and to that of the Macchiaioli. They said I was good at reproducing reality, and even an antique painting, for me it was like doing maths. Of course, I took great pleasure in painting seascapes, landscapes... I felt that this state appeased my eternal restlessness, but it wasn’t what I was looking for. When I finally decided to leave my job in communication and dedicated myself exclusively to art, going to the studio every day did not change my habits. I went about my day like any other profession, but I was finally happy to paint full time. At the same time, this freedom also allowed me, as I had a family, to be available for my children when necessary. It was precisely the family that helped me to have that contact with reality that I could have lost if I had always stayed in the studio. How has your technique evolved over time? Initially, I concentrate on painting, but then I distanced myself from the academic approach, experimenting with other techniques such as photography, but always reworked on the computer and contaminated with painting and video art, which accompanied each project. After a series of projects, including D.I.O. Determine Illumination and Darkness (2007), in which I compared the presence/absence of positive and negative symbolism, Urban Aspirations (2013), Here and Now (2014) and Butterfly Effect (2014), I felt agian the need to “get my hands dirty”. I used colours, later combining them with resins and other materials, to recreate what I had been able to visually process with photography. But I felt I had to go beyond. In the meantime, I attended a wonderful professional illustration course in Rome at the Scuola di Fumetto e Illustrazione Pencil Art. I learned there that the stroke is something unique. One of the exercises was to portray a model from life who was in the middle of the room and whose position was changed every three minutes. In that short time, we had to draw an image of what we saw. Copying reality is something anyone can do, of course you must know how to do it, but the stroke is something unique and changes from person to person. Yes, I had to give the hand freedom. A further evolution took place during the lockdown in spring 2020, when I also started drawing with my left hand, which I had never used before. This freedom was instrumental in giving the stroke an even more creative vein. Today I draw with both hands. Let us dwell on your solo exhibition Extraurbane (2008) at Gallery 196 in Rome, your first collaboration with gallery owner Federica Di Stefano. A project born from the suggestions of the trip you made to Burkina Faso in 2007, which was also the occasion that introduced us to... It all started with Bettie Petith, an extraordinary American woman who has lived in Rome since the 1980s and who created Fitil, a very serious non profit organisation active in various villages in Burkina Faso. I decided to go to Burkina Faso because I only had a glimpse of Africa, I had been in a village in Kenya, and I wanted a more direct confrontation with real life. With Bettie, who is our trait d’union, I had the chance to get to know the village of Sakouli, sleeping and living there. It was the discovery of a part of West Africa! I remember the incessant noise coming from outside, the first night in Ouagadougou, in Fitil's operational headquarters: I wondered if it was woodcocks, or maybe seagulls, but then I discovered it was geckos in love. Nature was extraordinarily present and intense. I also remember the vitality and energy in the capital. During the trip to Burkina Faso, of course, the camera helped me to capture the moment also in anticipation of processing this experience through art. The exhibition Extra– urbane was born from the desire to tell, through my eyes, the beauty and elegance, aspects that go beyond the western stereotypes of Africa. At that time, the 20th edition of Fespaco, the Pan African Film Festival, was taking place, with a series of cultural events including in Ouaga 2000, on the evening of 2 March, a fashion show with wonderful clothes by Senegalese, Ivorian, Ghanaian and Burkinabe designers. In addition to the cut and shape of these clothes, I was struck by the use of fabric colours and contrasting combinations. I have the feeling

29 28 that us, in the West, are afraid of colours, whereas in Africa there is total freedom. These suggestions led to both the video and the digital processing contaminated by painting techniques to which I added resin. Burkina Faso also returned in the works Women InColors, which I exhibited in 2019 at the Domus Art Gallery in Athens. In this new series I was inspired by African models arriving at a new representation of the memories of that journey, this time using only resin and acrylic colours on the canvas. What led you to choose resin, which has become the material to which you have entrusted your expressive style? First there was only painting, then photography on Plexiglas reworked and contaminated with painting. The technique evolved with the addition of canvas painted with the same image under and over the Plexiglas; then painting and resin passed over it and, finally, resin and other materials worked together. I was attracted by the reflected light of Plexiglas and in a way, resin has the same technical characteristics as Plexiglas. In fact, plexiglass is a polymethylmethacrylate, hence a hard resin, while industrial resin is a synthetic polymeric material. For Extra–urbane, I decided to use resin on the reprocessed photograph. I liked the idea of layering resin on top of photographic processing because it recalled the concept of suspension of memory. In that series, I superimposed images of my trip to Africa with images of Rome, my city. Later I experimented with the use of resin on canvases painted with layers of oil colours, as in the works in the two-person exhibition Sei gradi. Un istante (2009), also at Gallery 196, but I soon realised that controlling this material was very difficult. With these works, in 2010, I was invited by the Italian Cultural Institute of Damascus for a solo exhibition at the Aburemmaneh Arab Cultural Centre and to participate in the Art Symposium at the Ma’rat AlNoaman Archaeological Museum in Idlib. Over time I continued to experiment, looking for the resin that best suited my needs: the intuition came when I realised that I could “talk” with the element I was using, supporting it. Letting the resin react on the oil, rather than imposing a forced use on it, could even become a strength. Freeing the stroke, as well as the resin, was a further step that I came to thanks also to a period in which I meditated assiduously. The meditative practice helped me to remain centred and to bring out a part of me through the stroke itself. It is no coincidence that in 2018, the first exhibition after this period of experimentation, I called it Iosepha, which was what my Latin teacher called me in high school. Giuseppina in Latin is Iosepha. An exhibition in which I presented only female figures. Not that I hadn't worked on the theme of the feminine before, but this particular project was the story of me in a very delicate and also transfigured way. The woman I represented was almost unreachable. A woman who shows herself by hiding. I took up this theme again in a subsequent project, where the subjects are a woman with a little girl: two figures talking to each other. It is still a very introspective work, but at that point I felt I had freed myself completely. I no longer needed to narrate; I could finally “enter” the works I dreamed of making. This introspective path, as you said, is reflected in the much freer use of resin... In the Iosepha project, I used white canvases with resin that I let interact with the colour. It was very difficult to make because, working on instinct, I didn't always manage to avoid soiling the canvases, which had to remain immaculate. Transparency was also important because of its ambivalent symbolic meaning. In relation to individuals, it shows the existence of “transparent” people in a positive but also negative sense. People who can be so transparent that they almost don’t exist, or they can be everywhere. It is also the story of my mother, and of many other women, who despite having great inner strength did not have that ability to shout, to make herself heard and to fulfil herself in life, as well as a mother and wife. I remember a beautiful film Memoirs of a Geisha in which the main character says: “water digs its way through stone, and when it is trapped it creates a new opening”. Resin is as liquid as water and is originally transparent. There is a link, of course, between water, resin and the female figure. These women, whom I call “liquid”, represent both fragility and sweetness and sensuality and strength. Speaking of strength, in Guido Levi’s book Una storia piena di paure, di anie e di avvenimenti quasi gialli 1942–1946 (2021), for which we collaborated, you dealt with the story of the escape of a Jewish child and his family to Switzerland to save themselves from Nazi-fascist persecution... Despite the dramatic nature of that terrible period, the pages of the diary I chose for my illustrations always have a poetic look. Guido Levi was a four years old boy living a peaceful life in Genoa. But one day in 1942 he woke up in his warm and cosy bed to the roar of bombs. War had broken out! The diary begins with the allied bombs dropped on the port of Genoa and continues with her and her Jewish family's escape from Nazifascist persecution from city to city until they

31 30 find safety in Switzerland. I made 12 panels in which I tried to interpret the story through the eyes of a child who can, however, grasp the lyrical aspects. Even in the terrible stories there is a thread of optimism, a poetic look that I want to keep to always try to find a positive solution even in pain. In your most recent works, human figures lose their physical consistency, becoming increasingly ethereal. How do they fit into the large landscapes that you always conceive as a projection of your inner landscapes? The landscape becomes the main atmosphere of feeling, but it is also my representation of the world. Particularly “the planet I come from”, that place where I feel at ease. As in a dream I had years ago, it is also the place/non –place that I imagine is where we come from and where we will go, where there is not just one plane or one dimension but infinite others. The presence of the human figure always relates to the context, but not in an egocentric or aggressive way. In my opinion, it is part of the whole, in respect and harmony with the world that surrounds it and of which it is a part. The cloud, an element that appears for the first time in this new project, is also particularly significant. The cloud, like water, has no consistency, but fills the sky. The objective presence of the clouds is mediated by the literary quotation of the haiku, which I approached on the occasion of another recent project, Amabie. The magical prophecy of the Yokai. I was fascinated by the capacity for synthesis of these literary compositions from Japan: a few words with extraordinary poetic intensity. In particular, I found “enlightening” the haiku by an unknown author (mistakenly attribuited to Issa or Basho), which also gives the title to this exhibition: Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole (We take the marshy path to get to the clouds). Life can be difficult, but it is worth going through it to reach the "lightness" represented by the clouds. In these words, I not only find a perfect metaphor for life, but also for my own artistic journey. Talking about the "instinctive" use of paint, I spontaneously make a connection with the paintings of Samagra (Anna Maria Colucci, 1938 –2015), whom we both had the gift of knowing... I want to clarify that her method is more reminiscent of dripping, whereas I have a different methodology. You met her when she chose the Sanyasi name of Ma Prem Samagra and did a Zen painting in which the colour on the canvas was created as a meditative form, whereas my memories refer to when, as a teenager, I used to go to her house in Parioli in Rome, with my friend Daniela, who was her son Gianpaolo's babysitter. I remember her as a unique, beautiful woman: at the time, she was engaged to Alex, the Afghan prince son of the former king in exile in Italy. I also remember the cultural liveliness of the house, which was frequented by many artists and critics. Luigi Ontani, who was a close friend of Anna Maria, gave us the Indian diary that my friend and I took with us on our first trip to the United States. I still have it. I wrote notes in it, drew, painted. What I remember about Anna Maria Colucci is her great openness, her availability and her great passion for the Orient. When there was a problem, everything was solved with “let's ask the Ching!”. When she became Samagra a few years later, she spoke to me of colour as an instinctive and direct experience, unlike her photographic works of the late 1960s and 1970s, which were much more conceptual and reflected her adherence to feminism, having participated in the birth of the Cooperativa del Beato Angelico, one of the first feminist collectives in Italy. Are there any artists you consider mentors? The first is my mother who, when she was at boarding school at a young age, made three paintings that she brought home. They were simple oils on wood. It's a shame she didn't continue to paint, but she certainly must have planted the first seed in me. With regard to the use of colour, a mentor was probably Mario Schifano with that movement inherent in the colours, that frenzy that reflects his personality and in which, in part, I find myself. I also had a short acquaintance with Schifano, because his wife Monica De Bei and their son Marco lived for a while in the same building as me in Rome and he used to visit them. When my eldest son Marco was born, he also gave me one of his works. However, depending on how I relate to a given project, the inspirations and mentors can be different. For the Iosepha series, I was inspired by Klimt and his use of gold in painting, while the nervous stroke stems from my admiration for Schiele. Among my contemporaries, an artist I hold in high esteem, although I don't think I have ever been directly inspired by his works, apart from, perhaps, at the beginning for the use of plexiglas, is Emilio Leofreddi. Finally, I must thank Baldo Diodato for helping me to get to know and approach resin. But the real mentor, to whom I owe so much, is inside me: that insistent and demanding voice that kept telling me to never give up, always pushing me to look for new solutions. Rome, 29 November 2021

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