Catalogo Cambialamore

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Giusy Lauriola CAMBIALAMORE Nota Introduttiva Sergio Rispoli Postfazione Agnieska Zakrezwicz 3

NOTA INTRODUTTIVA di Sergio Rispoli Le immagini forniteci dai mezzi di comunicazione di massa, scaricate nella miscellanea dei network e consegnate all’incalzante obliterazione della logica commerciale, finiscono fatalmente per darci del mondo un volto superficiale, effimero, estraneo. Il volto di un mondo improbabile, dove il dolore s’intreccia con il benessere e la guerra con l’edonismo in rapide sequenze pubblicitarie. Del resto le immagini dei media virtualizzano il reale e lo collocano in un contesto che arriva a manipolarlo, a sterilizzarlo, a svuotarlo, a trasformarlo in una fiction, dove anche l’orrore rientra negli effetti speciali fino a diventare distante e inoffensivo. Di fronte a queste immagini, i nostri sentimenti sono correlativamente virtuali. Partecipiamo al dramma umano che ci viene proposto dai media con la stessa emozione destinata all’intrattenimento e allo spettacolo, un’emozione ad intensità indifferenziata, artificiale, alimentata dalla cultura dello zapping. E poi chi sceglie le immagini? Noi non possiamo farlo: sono già scelte per noi. Non siamo liberi di orientare il nostro sguardo, non decidiamo noi dove guardare. Ma tale scelta obbligata, imposta dai mezzi d’informazione, non è anch’essa una manipolazione? Non è di per sé uno specchio deformante del mondo, che riflette scorci settari di un’attualità di consumo, resa indistinta e irriconoscibile dallo shakeraggio del calderone mediatico? Tuttavia, in fondo, tutto questo non ci preoccupa così tanto. Se invece di visionare quotidianamente il sangue delle stragi in Medioriente ce ne si of- 4

frisse a giorni alterni una versione afro-asiatica o latino-americana, cambierebbe qualcosa nella nostra esistenza? Ne risentirebbero le nostre abitudini, le nostre relazioni, il nostro shopping? L’installazione fotografica di Giusy Lauriola, che viene illustrata più avanti in questo libretto (e che costituisce l’opera principale della sua mostra allestita nella Galleria Salon Privé di Roma), è un grande collage digitale, una striscia di 30 metri, formata da immagini estrapolate dai tabloid e dal web, e riassemblate in maniera sarcastica e provocatoria. Sono in prevalenza foto di violenza e desolazione, contaminate da altre immagini che invece rispecchiano una società che non soffre. La striscia disegna un luogo unispaziale e atemporale di paradossale coesistenza, dominato dalle icone di un’umanità martoriata, offerte all’indifferenza di uno sguardo che ha imparato a disconoscere il senso della tragedia che esse rappresentano. Per trasmettere il suo atto di denuncia, l’artista si è avvalsa delle stesse metodologie e linguaggi dei circuiti mediali. La striscia è difatti stampata su un supporto industriale di pvc traforato, identico a quello dei pannelli pubblicitari che ricoprono i fabbricati in via di ristrutturazione nei centri urbani o i mezzi pubblici di trasporto cittadino. L’opera è inoltre accompagnata (in occasione della mostra) da un breve “corto” che con la tecnica dei videoclip presenta una giovane donna intenta a truccarsi pigramente davanti a un grande specchio dorato, dentro il quale scorrono immagini di devastazione e di morte. Nelle pagine che seguono Giusy Lauriola, infine, racconta come in un feuilletton il proprio percorso esistenziale ed artistico, una sorta di diario privato, in cui peraltro potrà trovare utili spunti d’indagine chiunque voglia maggiormente accostarsi al suo modo di fare arte. Chiude questo libretto la giornalista Agnieszka Zakrzewicz con un saggio essenzialmente centrato 5

sull’ottica dell’indifferenza, strettamente aderente alla tematica qui trattata. 6

CAMBIALAMORE di Giusy Lauriola Signore e Signori, Vi presento il mio 30 metri. Un progetto concepito a Roma, il 15 maggio 2003, al bar del Fico, complice un prosecco con Sergio Rispoli, gallerista e amico di vecchia data. Era tanto che ambivo ad esporre presso la sua galleria, ma lui mi aveva risposto che faceva solo “cose strane”. Mi sentivo pronta. Ho raccolto la sfida. E gli ho sottoposto l’idea di una mostra da poter installare lungo tutto il perimetro della galleria, un lavoro unico che si sarebbe svolto come un rullino fotografico, raccontando una storia. Sergio Rispoli, un nome che mi riporta indietro nel tempo, almeno di una ventina d’anni. A quando la mia storica amica del cuore, Daniela, una bella ventenne estroversa e creativa di natura, lavorava come ragazza alla pari presso la sua casa ai Parioli. E quando dico alla pari, intendo nel senso più letterale del termine. Daniela partecipava alla vita della casa e delle persone che vi gravitavano ed io con lei. Lì respiravo un’aria che mi piaceva, parlavo di arte e di cultura, conoscevo persone affascinanti di cui non ricordo un granché. Ricordo bene, invece, Giampaolo il figlio, allora avrà avuto sei o sette anni e la moglie Annamaria, bella come un’attrice orientale, si muoveva in quella casa come su un palcoscenico. Sergio era sempre di passaggio, diretto verso chissà dove. Ricordo anche molto bene quando, ad un mio gesto altamente sconsiderato – ho avuto 18 anni anch’io -, lei rispose regalandomi “Il libro tibetano dei morti”. Non l’ho mai letto, lo confesso, ma ho apprezzato il gesto. Sto divagando. 7

Dicevo, dunque, che ero partita con l’idea di rappresentare una storia che fosse attuale ed universale allo stesso tempo. La guerra, il terrorismo, il sistema d’informazione, sono argomenti che ultimamente ci stanno bombardando, è il caso di dire, e che si sono praticamente imposti da sé. Ho scelto di metabolizzarli attraverso immagini digitali rivedute e corrette al computer. Che c’entra tutto ciò con l’arte, la pittura? Assolutamente nulla. O meglio, dal mio punto di vista è esattamente la stessa cosa. So che in molti non la pensano così, convinti che nella prova di destrezza manuale si riveli il vero artista - come se non fossi comunque io a comporre! -. Non posso farci niente (10 anni di pubbliche relazioni buttati al vento), quella di esprimere un sentimento, delle sensazioni o forse un ideale sono una mia esigenza. La vera scelta è nel “come”. E se ieri mi sentivo intimamente appagata da una lunga pennellata carica di rosso, per rappresentare un calla grande quanto una porta, oggi ho la necessità di aprirmi a ciò che sta succedendo “là fuori” e che si sta pian piano avvicinando al nostro “qua dentro”. Forse ora sono alla ricerca più che del plauso – affermazione rischiosa -, di altri che come me credono più alle immagini che ai sottotitoli. E per dire questo ho scelto una via più svelta: il digitale. A scapito della componente “artigianale”, ho preferito l’impatto delle dimensioni e dell’immediatezza. Domani, chissà, potrei aver nuovamente bisogno di rimescolarmi nel materico o forse di proteggermi con plastiche e siliconi. Oppure mi basterà un segno sulla tela. Il sogno di chiunque: minimo sforzo e massimo risultato. Magari vendo pure. A differenza del 30 metri che, mi è stato appunto fatto notare, non è proprio il genere di tela che si monta nel salotto buono, come pannello decorativo. Immagini, fotografie, pubblicità, ritagli che mi porto appresso da una vita. Da quando nel 1989, ho 8

iniziato a lavorare a Roma, nella città in cui sono nata e cresciuta, in una grande azienda italiana per lo spazio e la difesa. Ero molto orgogliosa di quel lavoro, me lo ero procurato da sola. Avevo appena rinunciato ad un posto come giornalista, perché raccomandata da mio padre. Che posso dire, ero giovane, poche idee e molto confuse. La via più facile mi ha sempre provocato una reazione allergica. Così mi sono ritrovata a fare quello che mai avrei immaginato, stare dietro una scrivania. Dallo spazio mi hanno spostato alla difesa. Dai viaggi in Guyana francese a quelli negli hangar degli aeroporti militari. La mia funzione nell’azienda era di addetto stampa. Mi piaceva e allo stesso tempo avevo preso l’abitudine di raccogliere le immagini che maggiormente attiravano la mia attenzione. Senza uno scopo preciso, ma conservandole con la netta sensazione che prima o poi a qualcosa mi sarebbero servite. A parte poche esperienze umanamente interessanti e alcuni viaggi di lavoro, posso dire che abbandonare la vita di ufficio sia stato molto liberatorio. Ero stufa di avere i quarti posteriori analizzati come in una TAC. E quando mi sono ritrovata a dover presentare prodotti qualificati per la “difesa” in modo languido ed entusiastico, neanche fossero in lizza per il Nobel, dentro di me è suonato un campanellino che strideva in modo fastidioso con tutte quelle immagini che andavo collezionando. Ero lì a promuovere dei prodotti che, con una leggera pressione della mano, avrebbero potuto ridurre in coriandoli chiunque. Non era esattamente ciò che sognavo avrei fatto da grande. Nel frattempo tentavo di compensare le mie perplessità professionali con la passione per la pittura. Nel passato avevo preso lezioni da un maestro di falsi d’autore, da un macchiaiolo e avevo frequentato l’Accademia di San Giacomo, un luogo bellissimo proprio nel cuore di Roma. 9

Una volta preso in affitto uno studio in centro, vicino casa, il salto è stato facile. Ah, quasi dimenticavo, nel frattempo mi sono sposata e ho avuto due figli, Marco e Sofia. Quando uno ha la vena creativa, qualcosa deve pur fare. Un giorno, erano quasi due anni da quando avevo cominciato a prendermi sul serio e a produrre quadri in quantità, incontro Sergio Rispoli ad un vernissage in via Margutta. Esponeva un pittore norvegese, carino. Non posso dire altrettanto della mostra. Non si dovrebbe lo so, ma ormai l’ho detto. “Ciao Sergio!” Io. “Ciao …” Dall’espressione si capiva che, se qualcosa di molto vago il mio viso poteva ricordargli, sul nome non c’erano speranze. “Sono Giusy, l’amica di Daniela. Ti ricordi, due o tre ere geologiche fa?” “Sì, sì. Aspetta, ma non ti chiamavi così, non eri …?” “Pina. E’ che non lo sopportavo proprio. Ho approfittato della mia parentesi giornalistica in cui mi firmavo con lo pseudonimo Giusy Magenta. E Giusy è rimasto.” “E come stai, che fai da queste parti? Non dirmi che sei qui per questa mostra?” “Già. Mi hanno invitata e adesso stanno cercando di persuadermi ad esporre in questa galleria. Ma non mi convincono.” “Un’artista, quindi. Dipingi?” “Già.” E così abbiamo cominciato a frequentarci, a parlare di arte e a visitare mostre. Finalmente qualcuno con cui poter condividere la mia passione, una persona che parlasse la mia stessa lingua. O meglio, lui parlava un linguaggio al quale io tentavo di avvicinarmi, ma mi rendevo conto di essere ancora alla preistoria. All’epoca, quando visionò i miei lavori fu molto gentile, mi disse che per aver cominciato dai 10

falsi d’autore dell’ottocento avevo fatto un bel po’ di strada, ma che tanta ancora ne avevo da percorrere. Solo alla mia ultima mostra di un anno fa ha cominciato a guardare le mie opere con un occhio diverso, più interessato. Per me il suo giudizio è importante. Sergio è una persona intelligente ed ironica e quel che ci accomuna, oltre all’arte, è un odio sconfinato per la noia. Vivo alla ricerca di forti emozioni, come se il tempo mi sfugga di mano e debba lavorare solo per rincorrerlo. Da adolescente pensavo che viaggiare fosse l’unico modo per fermare il tempo, andare da un posto all’altro. Avete presente Kerouack, bene, io seguivo le sue tracce. Decisi di scappare di casa a sedici anni, ero un’autentica sognatrice. Avevo perso la testa per Denis, un hippy di provenienza canadese, che ogni tanto incontravo in piazza Navona o a Santa Maria in Trastevere. Bello come il sole, cantava “I can get no satisfaction” dei Rolling Stones, mentre stavamo abbracciati sotto la pioggia, riparati solo da una coperta. Ridendo, mi chiese se volevo seguirlo in giro per il mondo. Lo presi in parola. La mattina dopo, chitarra in spalla e poche cose in una borsa, me ne andavo lasciando una lettera per i miei in cui spiegavo che, quando l’avrebbero letta, io sarei già stata lontana. Quando Denis mi vide arrivare, pronta per l’avventura, rimase un tantino interdetto, ma ero talmente felice che non ebbi modo di soffermarmi su questo dettaglio. Trascorremmo la notte nei sacchi a pelo in una stradina chiusa vicino al Gianicolo. E’ stata la mia prima volta. Sì, proprio in senso biblico. Era l’essere umano che maggiormente si avvicinava all’immagine che avevo di Dio. Non riuscivo neanche a parlare, le parole mi si bloccavano 11

in gola, mi sentivo così poca cosa al suo confronto. Ero in totale adorazione, immagino che vista dall’esterno dovessi dare l’impressione di un caso da elettroencefalogramma piatto. Dopo qualche giorno siamo partiti per la Sicilia, il nostro obiettivo era una comune a Piazza Armerina. In pratica ci eravamo installati in una casa di campagna, proprietà di un tipo piuttosto alternativo che lavorava alle poste, che ci ospitava e ci sfamava, vai a sapere il perché. E noi, una decina di ragazzi e ragazze, imitavamo la vita di una comune. Sognavo di trascorrere così tutta la vita, senza una meta, vivendo ai margini sani e puliti di una società malata e corrotta. Dopo qualche giorno, il cuore a pezzi pensando ai miei, li chiamai dicendo che stavo dalle parti di Catania. Apriti cielo, nel giro di due giorni mio padre aveva scatenato l’inferno. Ero minorenne. Vennero a prendermi i carabinieri. Mio padre tentò di convincermi che Denis – il mio Denis - era un trafficante di droga. Pretese ed ottenne di incontrarlo da solo. Non ho mai saputo cosa si siano detti. Riuscii a strappargli il permesso di tornare nella comune per un altro paio di giorni a Pasqua. Quando riapparvi per le feste pasquali – era una comune, c’era l’amore libero – Denis pensò bene di passare la notte con un’altra ragazza e di far l’amore con lei nella stessa stanza in cui mi trovavo anch’io. A quei tempi non si potevano esternare sentimenti negativi quali la gelosia, era assolutamente out. Per cui la mattina seguente preparai uno zabaione con un paio di uova sbattute, le portai ai due piccioncini e me ne andai a suonare il piffero su per una collina. Poi scappai via stravolta. Oggi che parlo e sono in grado di comunicare fluentemente, vorrei poterlo incontrare di nuovo per dirgli che dolore immenso ho provato. – “Brutto idiota, sei stato il mio primo amore, ma che ti è salta- 12

to in mente? Hai una vaga idea di quanti anni di analisi mi ci sono voluti per superare quel trauma?” - Per fortuna ho imparato ad esprimere i miei sentimenti e a non tenermi dentro le cose. Sono una persona adulta, matura e consapevole. E per una cosa del genere, uccido! In seguito il proprietario della comune mi scrisse une lettera dicendo che Denis era andato via da solo due giorni dopo la mia partenza e che stazionava nella piazza principale di Palermo, ubriaco. Mi piace pensare che l’abbia fatto per me, ma è una magra consolazione. 5 gennaio 2004, un trafiletto nella cronaca: 14.13 - Mamma ladra per necessità. E' successo a Piazza Armerina, in provincia di Enna. Una donna di quarant'anni è stata sorpresa dall'addetto di un supermercato con alcuni generi alimentari rubati. "L'ho fatto per i miei figli – ha detto- volevo offrire loro un pranzo degno di questo nome prima che facessero ritorno in istituto". Una mia coetanea, un quotidiano per me difficile da immaginare. Chissà se a sedici anni anche lei fantasticava un mondo di amore, di canzoni e di solidarietà? Quand’è che la realtà ha preso il sopravvento sui sogni? A quei tempi si andava in giro in autostop, un sistema pratico, economico e soprattutto avventuroso di viaggiare. Avevo ancora sedici anni, poco prima dell’estate, quando ho conosciuto la mia amica Daniela ad una fermata dell’autobus vicino casa. Ci siamo messe a chiacchierare e poco tempo dopo avevamo deciso di partire l’estate seguente alla volta di Londra, Parigi, Amsterdam. In effetti insieme abbiamo girato buona parte dell’Europa rigorosamente in autostop. Non so se oggi lo consiglierei ai miei figli, ma allora sembrava la cosa giusta ed è stato fantastico. Il mondo era a disposizione, bastava decidere la me- 13

ta e andare, senza dover chiedere niente a nessuno. Una sensazione di libertà ed indipendenza senza eguali. Vivevamo in un mondo tutto nostro a due metri da terra, forse è quello che ci rendeva inattaccabili o molto più probabilmente siamo state solo fortunate, ma non ci sono mai capitate esperienze negative, abbiamo quasi sempre trovato persone ospitali e disponibili. Certo, mi mancava il grande amore, ma forse sarebbe stato un impaccio, conoscendomi avrei anche potuto rinunciare ai miei vagabondaggi. Giravamo per le città europee, visitando musei, scrivendo le nostre esperienze su dei quaderni, regalateci dall’artista Luigi Ontani, che diventavano fitti di disegni, foto ritagliate (sic!), piccoli racconti. In un caldo e noiosissimo pomeriggio del 1977 io e Daniela a Roma ad una fermata dell’autobus - i ritardi cronici dell’Atac hanno contato molto nei miei incontri – abbiamo conosciuto Suzanne, una ragazza tedesca con due forti occhi azzurri, un taglio cortissimo di capelli biondi e un gran sorriso. Ci siamo messe a parlare del concerto che il mitico Bob Dylan avrebbe tenuto a Rotterdam il giorno dopo…. non potevamo mancare! L’indomani mattina eravamo tutte e tre in viaggio in autostop. All’inizio del concerto eravamo fuori dallo stadio e, manco a dirlo, senza una lira in tasca. Tutto accadeva come per magia, se volevi, potevi; convincere quei ragazzi all’ingresso che siccome eravamo venute apposta da Roma, dovevamo entrare per forza; ballare in mezzo allo stadio truccate giusto con qualche fiorellino disegnato sul viso; dormire a casa di un ragazzo olandese che ci aveva trovate mezze tramortite dal freddo su un marciapiede. Qualche tempo fa ho dipinto una serie di quadri su Bob Dylan. Con uno spirito decisamente diverso. “How many years must one man have, before he can 14

hear people cry?” Li ho nascosti in un magazzino. Forse perché rappresentavano l’inizio del mio impegno, mi sentivo emotivamente troppo fragile e qualsiasi commento avrebbe potuto ferirmi e togliermi quella grinta e forza che vorrei far emergere. Sono un’artista fragile? Forse. Anzi, probabilmente mi sto rafforzando proprio tramite l’arte. Il giorno dopo il concerto decidemmo di andare ad Amsterdam, ovviamente. Mentre le mie due amiche camminavano davanti a me sul ponte che porta alla stazione, vedo venire nella mia direzione un ragazzo. Bellissimo. Non smetto di guardarlo fisso negli occhi e lui sta al gioco - il fatto di trovarmi a più di tremila chilometri da casa probabilmente aiutava. Dopo qualche minuto stavamo camminando insieme. Lui era brasiliano e parlava portoghese e francese, io italiano e inglese. Abbiamo parlato a lungo senza capire un tubo. Ma scoprii che ci sono forme di comunicazione molto più avvincenti del linguaggio. La sera eravamo tutti a casa di un suo amico, io e lui in una stanza, Daniela e Suzanne in un’altra. Un amore durato un giorno e una notte. Perfetto. Senza dover raccontare nulla di noi – tanto chi ci avrebbe capito niente – senza preamboli o promesse. Solo l’immediata intimità data dai nostri occhi e dal reciproco desiderio. La mattina dopo era tutto finito, ma il calore e la dolcezza di quell’incontro mi hanno coccolata per molti giorni. Daniela mi ha accompagnato nei miei viaggi fino all’età di diciotto anni, quando presi la maturità. Poi ho continuato da sola. La maturità, un’esperienza surreale. Proprio come nel film ‘Ecce Bombo’ di Nanni Moretti, ignara di seguire un copione, al posto della tesi portai dei frammenti di alcuni brani scritti da me. Alla richiesta di motivare la mia scelta, risposi che la persona che conoscevo meglio ero io - anni settanta, 15

potevo dirlo senza rischiare la fucilazione. Stavo prendendo la maturità scientifica, mentre io avrei voluto fare l’artistico. La mia indole creativa repressa tentava di affiorare tramite quegli scritti, buoni probabilmente più per delle gag comiche che per un esame di maturità. Ma è andata. Nel frattempo, senza neanche rendermene conto, erano svanite la casa di Sergio, la mia amica Daniela e anche Roma. L’America, ecco cosa c’era nel mio futuro. D'altronde, me lo aveva prescritto il medico. Sì, perché avevo problemi di grandi ritardi con il ciclo e dopo tesi, antitesi, analisi e diagnosi varie senza che emergessero fattori determinanti, ma anche senza riuscire a risolvere la questione, l’ultimo di una lunga lista di dottori, guardandomi fissa negli occhi mi chiese: “Ma tu, che vorresti fare?” Ci ho riflettuto intensamente undici secondi e: “Io voglio viaggiare e andare a vivere in America!” L’ America per me rappresentava il sogno, l’opportunità, la possibilità di realizzare la parte di me che sentivo, ma che ancora non conoscevo. E così, finalmente finito il liceo, dopo l’epilogo Morettiano misi in pratica il consiglio di volare oltreoceano. A proposito: funzionò, ebbi il mio sospirato menarca (che bella parola per un avvenimento che, diciamolo, proprio entusiasmante non è) ad un ritmo più umano. Ero andata a vivere a Santa Cruz, in California, dove un gruppo di amici mi stava aspettando: e mi avevano lasciato una stanza in una casa chiamata ‘Trash House’ – mai appellativo fu più appropriato. C’era anche il mio ragazzo, Chris, che continuava a dirmi quanto fossi ‘soft’. Era un complimento, da non intendersi come molliccia, please. Lavoravo in un ristorante, davo lezioni di italiano, danzavo, dipingevo e volevo iscrivermi all’università. Il problema era che non si faceva al- 16

tro che organizzare feste e serate e la casa era piena di gente che cantava, ballava e/o fumava. Fondamentalmente avevo sbagliato costa. Con dieci anni di ritardo ho scoperto che il polo artistico internazionale era New York! Sic! Comunque, per rimanere lì ed iscrivermi al college era necessaria la residenza, la famosa ‘green card’. Nessun problema, la mia amica Elizabeth propose a me e a suo fratello Bruce di sposarci. Così, tanto per unire l’utile al dilettevole: risolvere la seccatura del permesso di soggiorno ed avere un pretesto per l’ennesima mega festa. La Trash House venne allestita per l’evento. Io fui accompagnata all’altare dal padre di Bruce ed Elizabeth, ero vestita di bianco, con un grande cappello color crema, occhiali da sole e le labbra tinte di viola. L’accompagnamento musicale era gestito dalla band in cui suonava Chris e il sacerdote che ci sposava, appartenente alla Universal Church, era anche lui un amico del giro. Al suo cospetto, prima del fatidico sì, era previsto che recitassi l’alfabeto inglese alla perfezione e al momento del bacio ci è arrivata in piena faccia una torta di panna montata. Birra, risate e balli a volontà come in ogni matrimonio che si rispetti. Era fatta. Quella stessa notte, mentre mi stavo dolcemente abbandonando nelle sue braccia, Chris all’improvviso cominciò a stringermi le mani intorno alla gola, chiedendomi nel frattempo perché non l’avessi proposto a lui di sposarci. Hai voglia a spiegare che era nato tutto per gioco e che i sentimenti non c’entravano e che era per una giusta causa. Quello stringeva. Insomma, ho avuto il tiepido sospetto che non l’avesse presa così bene come voleva far sembrare. Il problema successivo era che il college costava tantissimo e, nonostante io avessi trovato un posto come ragazza alla pari in una bellissima villa 17

sull’oceano e lavorassi part-time in un ristorante, i soldi non sarebbero bastati. Il padre di Chris era docente universitario, se non addirittura rettore, e mi disse che mi avrebbe potuto aiutare. Eppure cominciava a mancarmi Roma, non sapevo con chi parlare, i miei amici cominciavano a sembrarmi piuttosto superficiali. Nonostante la loro scelta di vita ‘trash’, provenivano tutti da famiglie estremamente ricche. Per loro era solo una parentesi ludica. Forse non avevamo poi molto in comune. Qualcosa mi richiamava a casa. Da un giorno all’altro mi ritrovai a Roma. In realtà avevo trascorso pochi mesi oltre oceano! Oggi penso che quel frenetico desiderio di viaggiare fosse dettato dalla necessità di scoprire qualcosa di importante che mi coinvolgesse, che mi facesse sentire l’adrenalina. Adesso che ho scoperto quali sono i motivi per i quali amo vivere, sono più lucida (qualità che in pochi mi riconoscono, in verità) nel vedere ciò che mi succede intorno. Nel frattempo l’America, che per me ha rappresentato la libertà, ha invaso l’Iraq e l’Afghanistan. Per non parlare degli attacchi alla Corea, al Guatemala, Cuba, Laos, Vietnam, Cambogia, Grenada, Libia, El Salvador, Nicaragua, Sudan, Ex Jugoslavia – perdonatemi se ne sto dimenticando qualcuno. In seguito alle tele su Bob Dylan, ho fatto un grande quadro con la bandiera americana e nel rettangolo blu ho inserito la cartina degli Usa con il tragitto del mio viaggio fatto in autostop la prima volta con Daniela a 17 anni con la scritta “it was just a dream” e poi un’altra bandiera americana grande e tra le strisce in fondo c’è il segno della pace al contrario. Ho l’impressione che la mia idea di libertà differisca per qualche verso da quella a stelle e a strisce. Faccio ancora parte della schiera “la mia libertà finisce dove inizia quella del mio prossimo”. Una di 18

quelle regolette auree a monte di qualsiasi scelta etica, politica o religiosa, con le quali, nel dubbio, non ti puoi sbagliare. Scrive Arundhati Roy nel suo libro “Guida all’impero per la gente comune”: “I potenti sanno che la gente comune non sempre e non necessariamente è crudele o egoista. Se la gente comune valutasse costi e benefici ne scaturirebbe una presa di coscienza che potrebbe far sentire il suo peso. Per questo motivo, deve essere tenuta al riparo dalla realtà, tirata su in un’atmosfera controllata, in una realtà artificiale, come polli o animali da allevamento. Chi di noi è riuscito a scampare a questo destino e razzola liberamente nell’aia non crede più a tutto quello che legge sui giornali o vede alla tv. Accostiamo l’orecchio al terreno e cerchiamo di trovare altri modi per dare senso a ciò che ci circonda.” E’ uno dei libri che ho divorato la scorsa estate, mentre spalmata sul lettino, da sotto l’ombrellone, osservavo la mia prole correre finalmente scalza sulla sabbia (rovente) e buttarsi felice (ed urlante) nell’acqua. Fra i vari libri, è stato quello che mi ha scosso dallo stato di torpore ovattato che avvolge la maggior parte dei genitori in vacanza al mare con i figli (dev’essere il duplice effetto dello iodio: più i bimbi diventano iperattivi, più si sfaldano i genitori). E così come anni fa mi sono resa conto che quella esperienza americana che stavo vivendo era piacevolissima, ma era una farsa, scollegata dalla realtà, quest’estate ho improvvisamente realizzato che il mio piccolo universo, bellissimo, per il quale ho combattuto e di cui vado fiera ed orgogliosa, non poteva essere sufficiente. Ho sentito un dito puntato contro di me, ho provato una piccola fitta di vergogna. Bella l’isola felice, ma lì fuori sta succedendo di tutto. Ho ripreso a leggere di politica internazionale e a ritagliare le 19

immagini più inquietanti. Con fatica sono riuscita a scollarmi dalle sabbie immobili della vita da spiaggia per tentare di capire cosa diavolo stesse accadendo nel mondo. Ora io mi trovo davanti ad un computer che mi permette di scrivere, ascoltare musica o vedere un film. Possibile che il cervello umano sia in grado di creare modelli tecnologicamente tanto avanzati, ma quando si tratta di dialogo, di accordi, di venirsi incontro, siamo ancora nel buio medievale, alle faide familiari o, perché no, a un bel genocidio che ogni tanto non guasta. Evidentemente mi sfuggono alcuni passaggi fondamentali. Il rapporto tra arte e politica investe la ricerca del significato ultimo della vita? Di fronte alle ingiustizie, agli sfruttamenti, ai massacri perpetuati da potenti predatori a danno di masse sterminate di individui, di fronte al dolore e alla morte, come si pone l’artista? Questi lamenti sono una faccia della realtà oppure sottendono sentimenti, emozioni, processi più profondi che afferiscono al destino ultimo dell’esistenza sulla terra dell’intera umanità? Ma la vita è tuttavia anche gioia, felicità di esistere che l’artista traduce talvolta in straordinarie espressioni che stimolano profonde emozioni nell’animo umano predisposto a raccoglierle e sublimarle. Dolore e gioia sono le due facce della realtà che l’artista rappresenta? E questa rappresentazione, se tale dev’essere, è mera sofferta rassegnata descrizione della drammaticità del reale oppure è anche, o sottende inconsapevolmente, denuncia, fede, attesa, spinta verso una taumaturgica vittoria finale della gioia sul dolore, del “bene” sul “male”? “… dare senso a ciò che ci circonda.” Non è facile quando pensi che c’è un’agenzia di viaggi milanese che organizza esotici safari con tanto di caccia al nero – al leone no, è vietato – oppure ai charter per la Thailandia a scopo turisticosessuale – che tanto lì i bambini te li tirano dietro. 20

Attenzione, non stiamo parlando del singolo psicopatico o della scheggia impazzita, ma di gente disposta a sfruttare le altrui psicopatologie ai danni di persone più deboli se non inermi, al solo scopo di lucro. Arrivare a giustificare una guerra per interesse è cosa di un attimo. Pare che il cosiddetto terzo mondo esista per soddisfare le comodità o le necessità dei paesi sedicenti sviluppati. Con il fenomeno della globalizzazione poteva sembrare che tante disparità fossero destinate a risolversi e che lo sfruttamento potesse finalmente tramutarsi in opportunità di lavoro, di crescita. “Quante più persone verranno a conoscenza dei segreti della rete globale dei marchi e dei logo, tanto più la loro indignazione alimenterà il grande movimento politico che si sta formando, cioè una vasta ondata di contestazione che prenderà di mira le società multinazionali, in particolare quelle con i marchi i più conosciuti” scrive Naomi Klein nel suo ‘No Logo’ , che nella sua ricerca è riuscita a salire “…lungo il percorso delle scarpe da ginnastica Nike arrivando alle fabbriche abusive in Vietnam, dai corredini di Barbie fino ai bambini lavoratori di Sumatra, dai caffè di Starbucks fino alle piantagioni di caffè del Guatemala, e dall’olio Shell fino ai villaggi del delta del fiume Niger”. Effettivamente ogni tanto ho la sensazione che qualcuno stia dirigendo le nostre esistenze. E che quel qualcuno non sia Dio – sebbene presumo che la sindrome da identificazione sia latente. Se c’è un pregio nei nostri tempi è dato dai mezzi di comunicazione: nel bene e nel male, adesso sappiamo. Tutti sanno, quelli che vengono sfruttati (che forse un qualcosina già sospettavano) e sappiamo noi (che magari ci poteva far comodo fingere di non sapere). E il sapere implica una responsabilità. Quella di vivere il proprio tempo cercando 21

di farlo virare in una direzione piuttosto che in un’altra. Mi ricorda vagamente la rivoluzione industriale inglese, che sul momento sembrava fosse in grado di risolvere tutti i problemi relativi all’economia, ma intanto segnava l’inizio di un nuovo tipo di miseria. Il progresso è fantastico, è che da solo non può far molto. Nella mia storia personale l’Inghilterra coincide con la preparazione della tesi di laurea. All’università avevo preso Lingue e letterature straniere moderne e anche se in ritardo nel 1987 ero finalmente arrivata alla tesi di laurea ed avevo preventivato un periodo a Londra per raccogliere il materiale necessario al British Museum Library. Il progetto andava foraggiato, e con un gruppo di amiche accettammo un lavoro (!) come ‘go-go girls’ presso una discoteca di Rieti. Dovevamo andare una volta alla settimana in questo locale, vestite in body e calzamaglia stile frou-frou, e ballare in pista mescolate al pubblico per attirare gente. Il trucco per non essere abbordata o molestata era ballare ininterrottamente senza fermarsi per tutta la sera. Un sistema faticoso, ma garantito. Certo che quando arrivavamo sul posto e sul cartellone c’era “E stasera con noi le Go-go girls!”, era a dir poco imbarazzante. Ma eravamo diventate l’attrazione del locale, quando andavamo al bar o al ristorante ci guardavano come se fossimo delle star. Per fortuna due mesi furono sufficienti per raggranellare la somma per partire. Il soggiorno a Londra è stato memorabile. La mattina mi piazzavo in biblioteca, proprio quella dove Marx ha scritto il ‘Capitale’, e con una pila di libri antichi a destra, una a sinistra e in mezzo il mio bel quadernetto, mi accingevo a redigere la tesi – un tantino meno geniale del succitato, ma sicuramente altrettanto ispirata. Avrei potuto vivere così per sempre: di giorno in biblioteca e la sera al pub. 22

In biblioteca, quando alzavo la testa dai libri per stiracchiarmi o massaggiarmi il collo, avevo notato un ragazzo molto carino che mi osservava. Scoprii in seguito che si trattava di un ricercatore norvegese. Per giorni continuava lo scambio di sguardi con lui, che adesso aveva preso l’abitudine di sedersi davanti a me. Era alto, con capelli chiari che scendevano sulle spalle e aveva uno sguardo ed un sorriso dolcissimi. Mi piaceva proprio tanto ed aspettavo con un lieve palpito il suo arrivo la mattina. Quando finalmente riuscimmo a rompere il ghiaccio, non smettemmo più di parlare. Letteratura, antropologia, il mondo, ogni argomento ci coinvolgeva ed avevamo così tanto da dirci. Abbiamo intrapreso una love story intellettuale fatta di passeggiate, panini e coca-cole, mani intorno alla vita. Quando stavamo insieme sentivo di essere nel posto giusto con la persona giusta. Sesso neanche a parlarne, anche se capivo che c’eravamo molto vicini. Il tempo trascorse velocemente e con lui il British Museum Library e il ricercatore norvegese, perché dovevo, mio malgrado, tornare a Roma. Tuttavia il ricordo di quel periodo in cui vagavo dallo studio al gioco sensuale, dalla percezione di possedere qualcuno alla consapevolezza del contrario non mi ha mai lasciato. La tesi l’ho redatta e finita velocemente. Ero in gran sintonia con la docente di letteratura inglese, Nadia Fusini con cui avevo deciso di laurearmi. Una donna veramente speciale. Mi ha conquistata (non ci vuole poi tanto) ad un esame su Amleto, che avevo studiato benissimo e forse troppo. Mi colpì la sua prontezza di spirito sulle mie trovate sempre un po’ Morettiane quando le dissi “Ma scusi, questo Amleto che noia, un po’ di sano femminismo lo vogliamo evocare? Non vuole lasciare che quella povera madre abbia una storia con chi le pare! Eh basta! Non solo non riesce lui ad agire (sapete la storia essere o 23

non essere questo è il dilemma che lo imprigiona nel pensiero antitesi dell’azione), tanto che qualsiasi decisione, anche la morte, gli arriva dall’esterno, ma, vuole coinvolgere anche gli altri! I soliti uomini! La Fusini, invece di pensare che fossi un po’ fuori, ci ha riso su e io, con un tono molto rilassato, ho continuato allegramente a discorrere dell’esame in questione che mi è valso un bel 30 e lode. Come faceva a non conquistarmi… Il titolo della tesi fu “Thomas De Quincey e Immanuel Kant: viaggio tra morte-sogno-oppioparola”. Sicuramente particolare. Si poteva supporre che fosse stato redatto da una ex tossica o da una fan del film Harold & Maude! Quando sono andata a discuterla ero verde dalla paura e notavo una certa discrepanza tra il mio stato d’animo e quello disegnato sui volti dei docenti che mi dovevano ascoltare: chi leggeva, chi guardava in alto, chi sbadigliava. Ma come, io mi ero impegnata così tanto in quel lavoro! Appena seduta, alla domanda del perché avevo scelto un argomento del genere ebbi un’altra delle mie ispirazioni Morettiane (prima o poi dovrò conoscerlo personalmente): “chi fra voi se ne avesse la possibilità non morirebbe sapendo di poter tornare in vita?” - Silenzio inquietante e poi risate. Ero riuscita ad attirare la loro attenzione - “ Bene questo è quello che Thomas De Quincey ha fatto imbottendosi di laudano dopo le innumerevoli morti che lo hanno trafitto”. Poi ho cercato di spiegare come avevo sviluppato la tesi, in particolare ho raccontato che il pensare continuamente alla morte avrebbe potuto essere considerato paura, debolezza, una fuga dal mondo, ma per De Quincey (e per me) coincideva con il chiudersi della vita. Non solo, ma rendere quotidiana la morte è comprenderla, nel senso di comprendere la possibilità che possa sempre accadere. Anticipare la morte con le morti apparenti raggiunte da 24

De Quincey con la parola è accettare il significato ultimo della vita. “Non esiste conoscenza profonda senza sofferenza” afferma De Quincey “né tanto meno v’è conoscenza della vita senza l’esperienza della morte (…) Quando il ricordo scompare con la persona che ricorda, rimane la parola”. Questo De Quincey come tutti i poeti lo sapeva, forse nel suo scrivere senza sosta ha cercato una verità che potesse svelarci il mistero. Una parola dopo l’altra aspettava “la parola”. Tra i veli dell’oppio cercava “la visione” che gli potesse far vedere il mondo sconosciuto. Come De Quincey fece con Kant quando scrisse “Gli ultimi giorni di Immanuel Kant” noi ripetiamo l’eterno rito di guardare alla vita-morte altrui con la speranza di carpire il senso della vita stessa. Raggiungere o almeno avvicinarsi a tale scopo è il compito del pensiero umano. Nonostante l’esordio azzardato mi hanno dato 110 e lode. Uno dei giorni più esaltanti della mia vita ! Questo mio scrivere della morte mi aveva in qualche modo persuasa che potesse essere un segnale premonitore di una mia prematura dipartita…. ma non si trattava di me. Domenica 9 luglio 1989, due anni dopo, mi sentivo un po’ giù. Ero con alcuni amici e un mio ex; stavo camminando e una stretta alla gola mi attanagliava senza motivo. Chiesi di tornare a casa, non mi sentivo bene. La mattina del 10 dovevo impartire una lezione di inglese ad una bambina, ma telefonai per disdire perché proprio non me la sentivo. Nella calma della casa deserta tirai fuori i colori, i fogli e iniziai a dipingere. Vagavo e dipingevo ed ero infinitamente triste. Verso le cinque del pomeriggio mi arrivò una telefonata: “Giusy devi venire subito al giornale, tuo fratello ha avuto un incidente gravissimo di moto in Corsica” “ Cosa? Un incidente?” Attaccai e corsi al giornale. Arrivai al terzo 25

piano dell’edificio dove mi aspettava un collaboratore di papà. Mi disse di sedermi. Mi sono seduta. “Giusy, ascolta, Marco è morto.” Marco aveva diciotto anni, io ventinove. Quando ho sentito la parola morte tutto si è fermato. Fermo immagine. Morto? Che significa? Non lo rivedrò più? E’ morto? No, no, no, no. Come è successo? Quando? Come? A che ora? Perché? Disperazione, lacrime. Poi scatta un meccanismo infernale in cui si cercano i dettagli per ricostruire gli eventi, per far riavvolgere la pellicola che lo riporti al momento prima della fine. Ogni informazione diventa “vitale”. Quali sono state le sue ultime parole, cosa ha fatto prima, dove voleva andare, perché ha preso la moto? Se non avesse, se non fosse. La macchina che lo ha colpito. Chi erano quei signori? Perché passavano di là? Ero sicura dentro di me che la morte, che ho sempre analizzato, con cui ho sempre tanto giocato, riguardasse me, mai e poi mai lui. L’innocente della nostra famiglia, il puro. La stella della casa. Avevo undici anni quando era nato, era quasi come un figlio per me, solo che non sentivo la responsabilità del genitore. Me lo portavo sempre dietro con gli amici, giocavamo insieme, ci volevamo un bene infinito. Per dirmi a modo suo che mi amava, mi abbracciava e fiero sussurrava “sei bellissima”. Non era vero, ma capivo il significato di quel complimento. Ora è mio figlio, cui ho dato il nome di mio fratello, a dirmi ogni sera prima di addormentarsi: “Mamma sei bellissima”. “ Giusy ” mi aveva detto prima di partire per la Corsica “quando torno ti devo parlare, ho tante cose da dirti”. Dove sono ora quelle parole disperse? Sono qui che aspetto Marco, dove sono, dove sei? Quando partimmo per andarlo a vedere eravamo tutti sotto shock. Mia sorella era a Londra, sarebbe arrivata a Roma al nostro ritorno per il funerale. 26

Non capivo come mai tutto il mondo non parlasse della sua scomparsa, non condividesse il nostro dolore. L’impossibilità di sentire ancora la sua voce, i suoi racconti. L’impotenza. Sono stata io a doverlo dire a mia madre. Urlava all’altro capo del telefono. Urlava e piangeva. Che compito ingrato, mi sentivo come se l’avessi ucciso io. Le nostre vite insignificanti e colpevoli avevano causato quella tragedia. Ecco cosa provavo. Oggi di fronte alla morte sono diventata di ghiaccio. Mi è entrata dentro, è in me. Eravamo davanti alla camera mortuaria e mi avevano detto di evitarci lo spettacolo di un ragazzo sfigurato da un incidente. Ma come si può fare ad aver paura della morte di una persona che ami. Entrammo. Lui era lì bellissimo, abbronzato e addormentato. Non lo toccai per evitare di cancellare il suo caldo abbraccio. Me ne sono pentita amaramente. Piccola stupida pavida. La sera ho avuto un attacco di panico, non riuscivo a respirare. Mi hanno portata in ospedale, parlavo con lui, lo vedevo arrivare. La mattina dopo, mentre ero ancora ricoverata sotto sedativi, lo hanno chiuso in quella bara. Hanno sigillato un anonimo coperchio sul suo adorato volto. Addio per sempre. Ma perché non ce lo date? Fatemi vedere cosa succederà a mio fratello. Perché me lo togliete, perché tutto deve essere nascosto? Per fortuna ho continuato a sognarlo. Tante volte. Una notte stavamo camminando insieme su un cumulo di macerie, abbracciati come sempre e io gli chiesi “Marco cos’è la morte?” e lui mi rispose: “Pensa a vivere”. La sua morte ha cambiato la mia vita radicalmente. “Pensa a vivere”. Ho guardato la mia vita: una miseria. Vivevo con un ragazzo che non amavo più. Solo che Marco ora mi guardava. Lui che non aveva più nessuna possibilità e io che sprecavo il mio tempo così prezioso, così tanto rispetto al nien- 27

te, rispetto a ciò che lui non avrebbe più avuto. Rispetto, rispetto per la sua morte. Dopo poco tempo ho lasciato quella casa e quel ragazzo e mi sono detta, con il dolore che mi trafiggeva, che avrei lottato per una vita migliore. Quando ho incontrato Stefano, mio marito, ho provato un terribile, soffocante colpo al cuore. Non ci credevo, ma ho provato un’acuta sensazione di aver trovato “la persona” giusta per me. Ero pronta a lottare. Pensa a vivere. Cominciavo a capire l’importanza di quel messaggio. Ho lavorato prima come giornalista poi come addetto stampa, ma nel frattempo quelle parole vivevano dentro di me, accompagnavano i miei pensieri. Il coraggio di vivere. Ecco perché oggi sono un’artista. Sono quello che volevo essere. Ora posso anche morire (si fa per dire), non ho rimpianti e continuo con tenace convinzione e infiniti piccoli dubbi il percorso che ho intrapreso. L’arte per me è proprio questo: fermare con un’opera una mia emozione. Non sono una fabbrica, non do’ lavoro a nessuno, è come se vivessi in quella comune siciliana. L’arte è un bene di lusso, da investimento. Nessuno si prende cura di distribuire tra i cittadini l’informazione artistica come lo si fa con un nuovo marchio da diffondere. Lì dietro ci sono i profitti, gli interessi. L’arte veicola solo pensieri e i pensieri non pesano nulla, anzi possono turbare la normale sonnolenza della gente. Mi piacerebbe poter utilizzare gli spazi dati alla pubblicità, chissà, forse un giorno potrei attaccarmi ad un tram… I miei primi quadri. Non potevo sopportare l’idea di creare qualcosa che non mi piacesse, così decisi di imparare copiando tele che amavo. Ho iniziato con delle marine bellissime del porto di Boston di Fitz Hugh Lane. Senza dubbio erano fatti bene, sapete con il pennellino triplo zero e con la tecnica 28

della velatura. Niente male in quanto a destrezza manuale, ma avevo comunque l’impressione di fare i compiti di matematica. Tutto quello che mi ribolliva dentro rimaneva fuori dalla tela. Anzi, la ricerca della perfezione nel tratto mi permetteva di estraniarmi da me stessa e dal mondo circostante. Il secondo passo è stato chiudere in un cassetto i colori a olio: ho comprato gesso e smalti. Che libertà… pensavo a Schifano e non è che lo conoscessi poi tanto bene, però ne sentivo la forza, quella sprigionata dal coraggio delle sue pennellate e dalla scelta dei colori. Così ho iniziato con i campi di grano. Poi sono passata ai fiori, ispirandomi a Georgia O’Keefe e così ho fatto le calle, i girasoli, e poi ho continuato con la materia e la sabbia e tanto rosso, blu, verde, giallo e ho iniziato con la frutta … Tutti esperimenti. Provavo. Cosa volevo esprimere? Cosa significavano quei grandi fiori, quella frutta enorme e quei campi? Ancora non c’era una risposta, quella che mi soddisfacesse. Sì, rappresentavano un segno della libertà che avevo raggiunto, un segno della mia felicità, ma non mi bastava. Volevo iniziare a raccontare la mia storia interiore. Ecco come sono nati i quadri su Bob Dylan. Quando nella mia adolescenza facevo l’alternativa, andavo a piazza Navona e insieme ad altri amici ci sedevamo sulle scale della chiesa e cantavamo le sue canzoni accompagnandoci con la chitarra. ‘Mr. Tamburine man’ o ‘Blowing in the wind’ erano le più gettonate. Eravamo fermamente convinti che con il nostro irremovibile rifiuto dell’omologazione, della guerra e del lavoro competitivo potevamo riuscire ad evitare di essere risucchiati nel malefico ingranaggio che disumanizzava le persone. A scuola, al liceo, proliferavano i collettivi e le assemblee studentesche. Si 29

discuteva e io potevo scegliere se entrare in politica o fuggire da tutto facendo l’hippy. La politica mi interessava, ma non riuscivo a seguire quei discorsi urlati. Avevo la sensazione di sapere troppo poco per parteciparvi attivamente e soprattutto la voglia di evadere era troppo forte. Poi c’erano stati gli scontri durante le manifestazioni, tra quelli di sinistra e quelli di destra, tra gli scioperanti e i celerini. Le brigate rosse stavano agendo. Moro era stato rapito nel ‘78. La violenza che ne derivava non mi piaceva, non mi apparteneva e così optai per le canzoni a piazza Navona sperando in una vita più semplice e una soluzione ancora più facile! Credevo nella solidarietà, nella comprensione verso il prossimo. Sinceramente vivevo in un mondo tutto mio, non vedevo nella gente che mi circondava alcun male e non vedendolo non lo subivo… forse! Ricordo che c’era un ragazzo a scuola che si definiva di destra ed era forse quello di origine più modeste fra noi e mi faceva una gran pena. Venne arrestato per qualche scemata e io di nascosto gli mandavo le lettere in prigione. Ricordo la mia perplessità, quando Pasolini ci fece notare l’incongruenza di alcuni dimostranti della sinistra impegnata, per la maggior parte studenti figli di papà, che ad una manifestazione in difesa del proletariato deridevano ed insultavano i carabinieri, ragazzi della loro età, di origini decisamente modeste che probabilmente nella vita avevano potuto scegliere solo fra la delinquenza o l’arma. Per non parlarvi dei collettivi femministi. Non capivo perché si dovessero dividere i due sessi o sottolineare che noi eravamo come loro: mi sembrava che parlassero dell’ovvio nel tentativo di estremizzarlo. No, non era fatto per me. Erano tutti movimenti interessanti, ma nulla mi convinceva a sposarne in toto la causa. Mi attiravano quelli che stavano ai margini di tutto sperando che in loro avrei trovato quella verità che mi sfuggiva. Ecco perché 30

persi completamente la testa per quel ragazzo canadese che suonava anche lui Bob Dylan a piazza Navona. A scuola eravamo convinti che le nostre manifestazioni sarebbero riuscite a cambiare il mondo: i padroni che sfruttavano i lavoratori, gli insegnanti demotivati che non riuscivano a trasmettere a noi studenti l’amore per la cultura. Ce l’avevamo con i nostri genitori, che non volevano altro che studiassimo per trovare un posto fisso e vivessimo come animali da allevamento una vita già programmata. Ce l’avevamo anche con i fascisti che secondo noi erano razzisti, seguaci del dio denaro, sempre attenti a comprarsi vestiti di marca e mettersi in mostra. Grande delusione: dopo tanti anni i compagni, come si definivano i maschietti di sinistra, hanno confessato di aver ardentemente desiderato le fichette di destra perché loro sì che si vestivano in modo femminile ed eccitante, mentre noi ci nascondevamo goffamente sotto vari strati di gonne lunghe e maglioni più di due taglie più grandi, per non parlare degli zoccoli rigorosamente neri (modello estateinverno), il tutto rigorosamente di seconda mano e sexy quanto la divisa di un netturbino. Ne è morta in quei giorni. Giovani vite spezzate per un ideale. Anch’io ho avuto il mio quarto d’ora di panico durante una carica della polizia. Volevamo dimostrare che poteva esistere un modo di vivere alternativo a quello dominante liberista e autoritario basato solo sul denaro e sulla sopraffazione del forte sul debole. Fiorivano le comuni e le aziende agricole. Insomma era un bel periodo. Poi il tempo è passato e i sogni di un mondo migliore sono svaniti con la necessità di trovare un lavoro e staccarsi veramente dalla famiglia. Tutto sembrava finito. Va da sé che nonostante abbia tentato in tutti i modi di rimanere ai margini, di rimanere vittima di chissà quale disgrazia nel corso delle mie folli eva- 31

sioni, di escludermi in qualche modo dalla normale routine, in seguito abbia prevalso nella mia vita la voglia di normalità. Dopo essere scappata di casa, aver cambiato scuola e essere andata a vivere da sola, rieccomi sui binari “consueti”: prima il diploma, poi la laurea, un lavoro fisso, il matrimonio, i figli! Solo dopo aver soddisfatto queste mie esigenze, ultimamente alcune voci sono tornate a riemergere. Quando qualche anno fa ho letto “Alba Bugiarda” di John Gray, mi è sembrato di vivere un deja vù: uno studioso britannico accademico affermava e dimostrava le tesi un po’ vaghe che noi giovani del ‘68 e degli anni settanta cercavamo di dimostrare con la contestazione e i capelli lunghi e scarmigliati. Nel suo libro si riprende in considerazione il fatto che il liberismo economico importato dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti non farà altro che distruggere lo stato sociale e la salvaguardia dello spessore più debole della società. “I liberi mercati sono creature di governi forti, al di fuori dei quali non possono esistere. Come non sono figli della democrazia. All’applicazione del laissez faire, infatti, corrispondono immancabilmente un aumento dei disagi e delle disparità sociali, un aumento dei livelli di repressione e di incarcerazione, uno sgretolamento della stabilità sociale e della solidità della famiglie – valori questi ultimi, paradossalmente portati a bandiera dalle stesse forze politiche che predicano il libero mercato” scrive Gray nel suo libro. Il mio percorso artistico cresceva insieme alla mia consapevolezza di guardare di nuovo al mondo che mi circondava. Col passare del tempo mi sono sentita sempre più libera. Creare senza pensare alla reazione esterna. E sì, perché solo quando avviene il distacco emotivo dal pubblico potrò avere qualche possibilità di creare quella “cosa” che ancora non riesco ad esprimere. Finché assecondo il desiderio altrui reprimo il mio. 32

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