11 10 così. In realtà, negli Stati Uniti ci sono andata non appena ho conseguito la maturità, nell’estate 1978, ma senza alcun sostegno dei genitori. Nella mia innocenza credevo che avrei potuto frequentare un college d’arte dove poter dipingere e danzare, altra mia passione, senza considerare che ci volessero finanze elevate che non avevo. All’epoca cercavo un modo per esprimere me stessa, ma era difficilissimo. Alla fine, per esclusione e per non rimanere lì senza studiare, ho deciso di tornate a Roma e mi sono iscritta alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università La Sapienza. Leggere, del resto, mi è sempre piaciuto molto. Anche i romanzi mi permettevano di viaggiare con la mente, non solo il disegno e la pittura che, comunque, avevo continuato a praticare per conto mio, anche dopo la laurea conseguita con il massimo dei voti. Quando, subito dopo, iniziai a lavorare nel settore della comunicazione, da una parte ero molto assorbita dal lavoro, dall’altra avere uno stipendio mi permetteva di studiare arte con maestri privati e frequentare anche i corsi pomeridiani alla scuola delle Arti e dei Mestieri di San Giacomo a Roma. Ero affascinata dagli odori della pittura! Il profumo di trementina, quello dei solventi… Finalmente potevo iniziare a dedicarmi veramente alla pittura. Del viaggio negli Stati Uniti racconti qualcosa nel libretto-catalogo che accompagna la mostra Cambialamore, realizzata nel 2004 al Salon Privé Arti Visive di Roma… Avevo identificato nella California un luogo di libertà dove tutto era possibile, ma arrivando lì ho scoperto che le cose erano molto diverse. Forse sarei dovuta andare a New York, non a Santa Cruz dove era tutto “let’s have party”. Non era quello che stavo cercando veramente, anche se mi sono molto divertita! Sì, di quest’esperienza ho parlato nel libretto per Cambialamore, la mia prima mostra importante organizzata da Sergio Rispoli. Realizzai un’installazione che era una striscia di 30 metri, alta 80 centimetri, con foto estrapolate dalle riviste e dal web, manipolate e riassemblate in maniera sarcastica e provocatoria. Erano in prevalenza immagini di dolore contaminate da altre che, invece, rispecchiavano una società che non soffre, presentate all’indifferenza di uno sguardo che ha imparato a ignorare il senso della tragedia. Poco prima c’era stato l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 e poi la guerra in Iraq. Mi ricollegai anche al mio vissuto personale, facendo un excursus che partiva proprio dalla contraddizione tra l’immaginazione che avevo nutrito per la California, ascoltando la musica di Bob Dylan o di Crosby, Stills, Nash & Young e leggendo On the road di Jack Kerouac, e la realtà che non era riuscita a colmare quell’inquietudine interiore che mi portavo dentro. Artisticamente la narrazione fotografica lineare di questo progetto, che era la descrizione di ciò che vedevo, è parallela a quella scritta. Si tratta di una versione alternativa a un catalogo “ufficiale” in cui spiegavo cosa mi avesse portato in quella direzione. Ho parlato anche della mia esperienza lavorativa nel settore della comunicazione quando, chiusa in una stanza ascoltavo la musica e, intanto, sui monitor (ne avevo tre o quattro davanti a me) controllavo contemporaneamente i lanci delle agenzie stampa. Devo riconoscere che questo lavoro mi ha anche permesso di viaggiare molto, imparare a organizzare le diverse fasi di un progetto e non solo: in quel contesto ho avuto l’occasione di incontrare mio marito Stefano, l’amore della mia vita, che mi ha permesso di dedicarmi all’arte e con cui ho avuto due figli favolosi Marco e Sofia. Un motivo per cui sarò sempre grata alla vita. Ho anche avuto il piacere di avere come capo Luigi Torre, padre di Mattia Torre, che conobbi quando era giovanissimo e a cui sono rimasta legata da una profonda amicizia fino alla sua scomparsa prematura. Dal punto di vista pittorico qual è stato il tuo approccio nello studio della tecnica? All’inizio mi sono voluta dedicare alla tecnica pittorica fiamminga e anche a quella dei Macchiaioli. Dicevano che ero brava a riprodurre il reale, e anche un quadro antico, per me era come fare un’operazione di matematica. Certo, provavo un grande piacere nel dipingere marine, paesaggi… Sentivo che quello stato placava la mia eterna irrequietezza, ma non era ciò che cercavo. Quando ho finalmente deciso di lasciare il lavoro nella comunicazione e mi sono dedicata esclusivamente all’arte, andare ogni giorno in studio non ha cambiato le mie abitudini. Scandivo la giornata come per una qualsiasi altra professione, ma ero finalmente felice di dipingere a tempo pieno. Allo stesso tempo questa libertà mi permetteva anche, avendo una famiglia, di essere disponibile per i figli quando era necessario. Proprio la famiglia mi ha aiutata ad avere quel contatto con la realtà Cambialamore, Champion, 2004
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