17 16 concepisci sempre come proiezione dei tuoi paesaggi interiori? Il paesaggio diventa l’atmosfera principale del sentimento, ma è anche la mia rappresentazione del mondo. In particolare “del pianeta da cui provengo”, di quel luogo in cui mi sento a mio agio. Come in un sogno che feci anni fa, è anche il luogo/non luogo che immagino sia quello da dove proveniamo e dove andremo, dove non esiste solo un piano o una dimensione ma infinite altre. La presenza della figura umana entra sempre in relazione con il contesto, ma non in maniera egocentrica o aggressiva. Per me è parte del tutto, nel rispetto e nell’armonia del mondo che la circonda e di cui è parte. Anche la nuvola, elemento che compare per la prima volta in questo nuovo progetto, è particolarmente significativa. La nuvola, come l’acqua, non ha consistenza, ma riempie i cieli. La presenza oggettiva delle nuvole è mediata dalla citazione letteraria degli haiku, a cui mi sono avvicinata in occasione di un altro progetto recente, Amabie. La magica profezia dello Yokai. Sono rimasta affascinata dalla capacità di sintesi di questi componimenti letterari che arrivano dal Giappone: poche parole con una straordinaria intensità poetica. In particolare, ho trovato “illuminante” l’haiku di un autore sconosciuto (erroneamente attribuito a Issa o Basho), che dà il titolo anche a questa mostra: Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole. La vita può essere difficile, ma vale la pena attraversarla per raggiungere la “leggerezza” rappresentata dalle nuvole. In queste parole non solo ritrovo una perfetta metafora della vita, ma anche di quello che è il mio stesso percorso artistico. Parlando dell’uso “istintivo” della materia pittorica, mi viene spontaneo fare un collegamento con i dipinti di Samagra (Anna Maria Colucci, 1938 –2015), che entrambe abbiamo avuto il dono di conoscere… Ci tengo a precisare che il suo metodo ricorda più il dripping, mentre io ho una metodologia diversa. Tu l’hai conosciuta quando aveva scelto il nome Sanyasi di Ma Prem Samagra e faceva una pittura zen in cui il colore sulla tela nasceva come forma meditativa, invece i miei ricordi si riferiscono a quando, adolescente, frequentavo la sua casa ai Parioli a Roma, con la mia amica Daniela che era la baby sitter di suo figlio Gianpaolo. La ricordo come una donna unica, bellissima: all’epoca era fidanzata con Alex, il principe afghano figlio dell’ex sovrano in esilio in Italia. Ricordo anche la vivacità culturale che si respirava in quella casa frequentata da tanti artisti e critici. Luigi Ontani, che era un caro amico di Anna Maria, ci regalò il diario indiano che io e la mia amica abbiamo portato con noi durante il nostro primo viaggio negli Stati Uniti. Lo conservo ancora. Ci scrivevo appunti, disegnavo, dipingevo. Di Anna Maria Colucci ho in mente la grande apertura, disponibilità e la sua grande passione per l’Oriente. Quando c’era un problema tutto si risolveva con «chiediamolo ai Ching!». Quando poi, qualche anno dopo, è diventata Samagra mi parlava del colore come di un’esperienza istintiva e diretta, diversamente dai suoi lavori fotografici della fine degli anni Sessanta e Settanta, che erano molto più concettuali e rispecchiavano la sua adesione al femminismo, avendo partecipato alla nascita della Cooperativa del Beato Angelico, tra i primi collettivi femministi in Italia. Ci sono artisti che consideri mentori? La prima in assoluto è mia madre che, quando in giovane età era in collegio, aveva realizzato tre dipinti che aveva portato a casa. Erano dei semplici olii su legno. Peccato che non abbia continuato a dipingere, ma certamente deve aver messo in me il primo seme. Rispetto all’uso del colore, un mentore probabilmente è stato Mario Schifano con quel movimento insito nelle cromie, quella frenesia che rispecchia la sua personalità e in cui, in parte, mi ritrovo. Con Schifano c’è stata anche una breve conoscenza, perché sua moglie Monica De Bei e il figlio Marco hanno abitato per un periodo nel mio stesso palazzo a Roma e lui passava a trovarli. Alla nascita di Marco, il mio primogenito, mi fece anche dono di una sua opera. Ad ogni modo, a seconda del mio relazionarmi ad un dato progetto, le ispirazioni e i mentori possono essere diversi. Per la serie Iosepha mi sono ispirata a Klimt e al suo uso dell’oro in pittura, mentre il tratto nervoso nasce dalla mia ammirazione per Schiele. Tra i contemporanei un artista di cui ho grande stima, anche se non credo di essermi mai ispirata direttamente alle sue opere, a parte, forse, all’inizio per l’uso del plexiglass, è Emilio Leofreddi. Infine, devo ringraziare Baldo Diodato per avermi aiutata a conoscere e approcciarmi alla resina. Ma il vero mentore, a cui devo tanto, è dentro me: quella voce insistente ed esigente che mi ha continuato a dire di non mollare mai, spingendomi a cercare sempre nuove soluzioni. Roma, 29 novembre 2021
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