piano dell’edificio dove mi aspettava un collaboratore di papà. Mi disse di sedermi. Mi sono seduta. “Giusy, ascolta, Marco è morto.” Marco aveva diciotto anni, io ventinove. Quando ho sentito la parola morte tutto si è fermato. Fermo immagine. Morto? Che significa? Non lo rivedrò più? E’ morto? No, no, no, no. Come è successo? Quando? Come? A che ora? Perché? Disperazione, lacrime. Poi scatta un meccanismo infernale in cui si cercano i dettagli per ricostruire gli eventi, per far riavvolgere la pellicola che lo riporti al momento prima della fine. Ogni informazione diventa “vitale”. Quali sono state le sue ultime parole, cosa ha fatto prima, dove voleva andare, perché ha preso la moto? Se non avesse, se non fosse. La macchina che lo ha colpito. Chi erano quei signori? Perché passavano di là? Ero sicura dentro di me che la morte, che ho sempre analizzato, con cui ho sempre tanto giocato, riguardasse me, mai e poi mai lui. L’innocente della nostra famiglia, il puro. La stella della casa. Avevo undici anni quando era nato, era quasi come un figlio per me, solo che non sentivo la responsabilità del genitore. Me lo portavo sempre dietro con gli amici, giocavamo insieme, ci volevamo un bene infinito. Per dirmi a modo suo che mi amava, mi abbracciava e fiero sussurrava “sei bellissima”. Non era vero, ma capivo il significato di quel complimento. Ora è mio figlio, cui ho dato il nome di mio fratello, a dirmi ogni sera prima di addormentarsi: “Mamma sei bellissima”. “ Giusy ” mi aveva detto prima di partire per la Corsica “quando torno ti devo parlare, ho tante cose da dirti”. Dove sono ora quelle parole disperse? Sono qui che aspetto Marco, dove sono, dove sei? Quando partimmo per andarlo a vedere eravamo tutti sotto shock. Mia sorella era a Londra, sarebbe arrivata a Roma al nostro ritorno per il funerale. 26
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