della velatura. Niente male in quanto a destrezza manuale, ma avevo comunque l’impressione di fare i compiti di matematica. Tutto quello che mi ribolliva dentro rimaneva fuori dalla tela. Anzi, la ricerca della perfezione nel tratto mi permetteva di estraniarmi da me stessa e dal mondo circostante. Il secondo passo è stato chiudere in un cassetto i colori a olio: ho comprato gesso e smalti. Che libertà… pensavo a Schifano e non è che lo conoscessi poi tanto bene, però ne sentivo la forza, quella sprigionata dal coraggio delle sue pennellate e dalla scelta dei colori. Così ho iniziato con i campi di grano. Poi sono passata ai fiori, ispirandomi a Georgia O’Keefe e così ho fatto le calle, i girasoli, e poi ho continuato con la materia e la sabbia e tanto rosso, blu, verde, giallo e ho iniziato con la frutta … Tutti esperimenti. Provavo. Cosa volevo esprimere? Cosa significavano quei grandi fiori, quella frutta enorme e quei campi? Ancora non c’era una risposta, quella che mi soddisfacesse. Sì, rappresentavano un segno della libertà che avevo raggiunto, un segno della mia felicità, ma non mi bastava. Volevo iniziare a raccontare la mia storia interiore. Ecco come sono nati i quadri su Bob Dylan. Quando nella mia adolescenza facevo l’alternativa, andavo a piazza Navona e insieme ad altri amici ci sedevamo sulle scale della chiesa e cantavamo le sue canzoni accompagnandoci con la chitarra. ‘Mr. Tamburine man’ o ‘Blowing in the wind’ erano le più gettonate. Eravamo fermamente convinti che con il nostro irremovibile rifiuto dell’omologazione, della guerra e del lavoro competitivo potevamo riuscire ad evitare di essere risucchiati nel malefico ingranaggio che disumanizzava le persone. A scuola, al liceo, proliferavano i collettivi e le assemblee studentesche. Si 29
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