vise la sua opinione Barthes. Ogni tanto però si guardano le cose più a lungo per allontanarle dalla mente, guardare può essere anche un modo di chiudere gli occhi. "I morti sul campo di battaglia non ci tornano in mente di frequente, neppure in sogno. Mentre facciamo colazione ne vediamo sul giornale del mattino, ma già al momento del caffè ne abbiamo scacciato il ricordo.” – aveva commentato un cronista del New York Times nel 1862, scrivendo una recensione della prima mostra fotografica sulla guerra, allestita nella galleria di Mathew Brady a Manhattan. Si trattava delle foto della guerra secessionista dei primi fotoreporter Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan, dove le vittime furono un soggetto frequente, affondate nel fango o predisposte per la sepoltura. “I vivi che affollano Broadway forse si curano poco dei morti di Antietam, ma noi pensiamo che si farebbero largo in modo meno spensierato lungo la grande arteria, e se ne andrebbero a zonzo meno sereni, se sul marciapiede fossero deposti dei corpi sanguinolenti, appena trasportati dal campo di battaglia. Le gonne verrebbero leggermente sollevate e si farebbe attenzione a dove si mettono i piedi”. – commentò il giornale. La fotografia già di per sé è un mezzo violento, non perché fa vedere la violenza, ma perché ne rafforza la visione. Catturare la morte nell'attimo in cui sopraggiunge e imbalsamarla per sempre è qualcosa che solo le macchine fotografiche possono fare, e le immagini che registrano il volto della morte (in un dato istante o nel momento prima, o subito dopo che essa arriva) sono sempre state tra le foto più note e più riprodotte. Nella perversione umana sembra che la voglia di guardare dei corpi massacrati sia forte come il desiderio di vedere dei nudi. “La macchina fotografica è come un fucile, ambedue hanno un mirino.” – questa è l’essenza del j’accuse di Susan Sontag, nel libro “Davanti al dolore degli altri”, che non può fare a meno di leggere chi abbia voglia di 43
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