riflettere sulla sofferenza e sulla follia, frutti della guerra. Per scrivere questi appunti sono stata spinta a rivedere alcune foto viste negli ultimi anni. Come punto di partenza ho scelto quelle dell’11 settembre. Ho guardato attentamente la sequenza dell’attacco: il primo impatto, il secondo, le torri che bruciano, il crollo. Il mio sguardo è stato a lungo catturato da una foto astratta che presentava un cielo violaceo, una lunga lastra del muro di cristallo, e da un punto scuro un corpo che cadeva giù. Anche questa foto imbalsamava l’istante prima della morte, la morte sempre al futuro, come quella del Vietcong fotografato da Adams. Ho anche riguardato le immagini di Ground Zero di Gilles Peress, Susan Meiselas, Joel Meyerowitz, nella mostra “After September 11”. Un enorme cratere ricoperto di cenere grigia e di macerie fumanti da cui spuntano i moncherini di acciaio delle due torri. Una in particolare, frontale e presa dal basso, per la sua atmosfera surreale ha ricordato una famosa fotografia di Margaret Bourke-White scattata nel 1945 a Norimberga, dopo il bombardamento a tappeto della città. Anche questa mi è ormai talmente familiare da far parte del repertorio della mia memoria visiva come icona della distruzione cieca. Ne avevo viste in passato di foto simili, come quelle documentali del Ghetto di Varsavia dopo l’insurrezione. Mi sono pure venute in mente le martoriate città di Mostar, di Grozny, di Kabul. Le costruzioni scarnificate, simili a scheletri umani. I paesaggi del disastro. Belli però… “Riconoscere la bellezza nelle fotografie delle rovine del World Trade Center nei mesi successivi all’attentato sembrava un sacrilegio”. – scrisse Susan Sontag nel suo libro. Sì, le foto di guerra possono essere belle. Come quella di Jean-Marc Bouju, che ha vinto il World Press Photo 2004. E’ stata scattata il 31 marzo 2003 44
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